Enrica Perucchietti – Blog

Giornalista e scrittrice. Ciò che le TV e i media non ti dicono

In questi giorni, presso il quartiere generale delle Nazioni Unite a Ginevra, si tiene la settantacinquesima Assemblea mondiale della Sanità, alla presenza dei delegati delle 196 nazioni appartenenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Costoro sono chiamati a votare degli emendamenti alle International Health Regulations (IHR) risalenti al 2005. L’obiettivo è quello di sottoscrivere un trattato pandemico internazionale in modo da creare una risposta centralizzata e internazionale alle emergenze sanitarie che detti la via in modo univoco per tutti (leggi articolo). In questo modo si cederebbe la sovranità nazionale in ambito sanitario all’OMS.

Casualmente, in proprio in questi giorni, si è anche presentata la nuova “minaccia globale” che, oltre a tenere alto il clima di terrorismo mediatico che era crollato con il conflitto russo-ucraino, pare poter legittimare la cessione della sovranità relativa alla salute dei cittadini a un organismo sovranazionale. Si tratta, ovviamente del monkeypox virus, il vaiolo delle scimmie.

A spianare la strada all’ennesimo virus era intervenuto pochi giorni fa Bill Gates che, in vista dell’uscita del suo libro How To Prevent the Next Pandemic, in un’intervista al Financial Times, ha messo in guardia l’opinione pubblica sul rischio di una nuova variante “più trasmissibile e più mortale” della Covid-19 ma anche sull’arrivo di nuove future pandemie.

Secondo Gates, per evitare la prossima pandemia servono più investimenti e la creazione di una squadra di epidemiologi ed esperti per prevenire e identificare rapidamente le minacce alla salute globale e migliorare la cooperazione fra i Paesi.

Il vaticinio da corvo di Gates riecheggiava ancora nelle menti disorientate dei cittadini di mezzo mondo, che ecco palesarsi i primi casi di monkeypox.

Questo, però, è solo l’antipasto. A Gates è toccato questo volta spianare il terreno. Terrorizzare un po’ l’opinione pubblica (e promuovere il suo libro), per riportare all’ovile coloro che pensavano di essersi lasciati alle spalle l’incubo del coronavirus.

Come già accaduto in passato, ci troviamo di fronte all’ennesima profezia che, curiosamente, si “autoavvera”. Perché, sia ben chiaro, i complottisti non siamo noi (nel senso che non siamo noi a ordire i complotti, semmai ci limitiamo a pensare “male”), e accertiamo la curiosa sincronicità.

Torniamo alle profezie che si autoavverano.

Ci sono dei pensatoi (i cosiddetti think tank) che si occupano di stilare dei documenti programmatici in cui “immaginano” il futuro (come il celebre Memorandum Rockefeller di cui parlavo in Governo Globale) oppure di simulare catastrofi o pandemie che poi si realizzano casualmente da lì a poco.

Insomma, leggendo con malizia, a posteriori, questi documenti, sembra di trovarsi dinanzi a delle sceneggiature in piena regola. Ma noi non siamo maliziosi, e pensiamo solo che Gates e i suoi colleghi filantrocapitalisti siano dotati di una sensibilità estrema nell’immaginare il futuro.

Ricorderete che qualcosa di simile è avvenuto nell’ottobre del 2019 con la pandemia da Covid-19: una simulazione particolare che ricorda i cosiddetti “war games” di cui ho ampiamente trattato in False Flag. Con l’espressione “war games” si intende lo schema di concomitanza tra simulazioni antiterroristiche e attacchi terroristici (veri). La scena del crimine “reale”, ossia degli attacchi terroristici, finisce per ricalcare simulazioni in corso degli apparati di sicurezza, generando panico e confusione tra ciò che è appunto vero, reale e ciò che è invece virtuale, simulato (l’esercitazione).

A New York il 18 ottobre 2019 viene eseguita una simulazione di pandemia del massimo livello, il cui nome in codice è “Event 201 Pandemic Exercise” e di cui esiste persino un dettagliato sito internet. Proprio sul sito possiamo leggere che tra gli organizzatori figurano il Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum (riunito in questi giorni a Davos) e la onnipresente Fondazione Bill & Melissa Gates. Lo scopo è gestire e ridurre le conseguenze economiche e sociali su larga scala di un’eventuale epidemia da coronavirus che potrebbe causare “65 milioni” di vittime”.

Lo stesso giorno in cui avviene l’esercitazione a New York, circa 300 atleti miliari americani sbarcano a Wuhan insieme ad altri atleti delle forze armate di 140 nazioni per partecipare al Military World Games. Sappiamo bene cosa è accaduto nei mesi successivi.

Passiamo ora a un’altra “simulazione”. Che supera di gran lungo le “previsioni” inquietanti ma ancora vaghe di Gates (leggi articolo).

Il 17 marzo 2021, quindi oltre un anno fa, la Nuclear Threat Initiative (NTI) e la Munich Security Conference, in consultazione con 19 esperti tecnici e politici, hanno simulato in maniera virtuale una esercitazione, immaginando un attacco localizzato di armi biologiche che genera una pandemia globale mortale per la prima volta nella nazione immaginaria di Brinia. Il virus utilizzato è quello geneticamente modificato del vaiolo delle scimmie e la data di inizio dell’attacco bioterroristico è il 15 maggio 2022 (come potete osservare dallo screenshot di p. 11 del documento):

In 18 mesi, lo scenario si evolve in una pandemia catastrofica a livello globale, con il 40% della popolazione mondiale infetta e oltre un quarto di miliardo di persone morte: più di tre miliardi di casi e 270 milioni di vittime in tutto il mondo.

Il report, Strengthening Global Systems to Prevent and Respond to High-Consequence Biological Threats: Results from the 2021 Tabletop Exercise Conducted in Partnership with the Munich Security Conference, è curato da Jaime M. Yassif, Ph.D., Kevin P. O’Prey, Ph.D., Christopher R. Isaac, M.Sc.

Sul sito leggiamo che «L’impatto del COVID-19 ha fornito uno sfondo urgente per questo esercizio, poiché la pandemia in corso ha evidenziato debolezze nell’architettura internazionale per prevenire, rilevare e rispondere alle minacce pandemiche. Questa è una preoccupazione urgente perché le future pandemie potrebbero eguagliare o superare l’impatto devastante del COVID-19 sulle vite perse e sulle economie distrutte. Ancora più preoccupante è che ci sono lacune critiche nella supervisione della biotecnologia che creano opportunità per un uso improprio accidentale o deliberato con conseguenze globali potenzialmente catastrofiche. Ciò è stato illustrato nello scenario dell’esercitazione: un attacco localizzato di armi biologiche con un virus del vaiolo delle scimmie geneticamente modificato inizia nel paese immaginario di Brinia. In 18 mesi, lo scenario si evolve in una pandemia catastrofica a livello globale, con il 40% della popolazione mondiale infetta e oltre un quarto di miliardo di persone morte».

Lo scenario dell’esercizio fittizio si è sviluppato gradualmente attraverso una serie di brevi video a cui i partecipanti hanno reagito durante una discussione. Sono emersi temi chiave in merito alla necessità di rafforzare i sistemi internazionali di valutazione del rischio pandemico e di allerta precoce; stabilire chiari fattori scatenanti per una risposta preventiva a livello nazionale e un’azione precoce aggressiva per rallentare la trasmissione delle malattie e salvare vite umane; ridurre i rischi della biotecnologia e rafforzare il controllo della ricerca nel campo delle scienze della vita; e promuovere nuovi e più forti meccanismi internazionali di finanziamento della preparazione alla sicurezza sanitaria.

Nuclear Threat Initiative (NTI) è una onlus americana fondata nel 2001 dall’ex senatore democratico Sam Nunn e dal filantrocapitalista Ted Turner. Lo scopo è quello di prevenire attacchi e incidenti catastrofici condotti con armi di distruzione di massa e armi di disturbo – di tipo nucleare, biologico, radiologico, chimico – nonché le minacce alla sicurezza informatica. Nel board siedono oltre a Nunn e a Turner, Des Browne (Membro della Camera dei Lord britannica), Joan Rohlfing e il fisico e politico statunitense, già Segretario dell’Energia nell’amministrazione Obama dal 2013 al 2017, Ernest J. Moniz.

Nel gennaio 2018, NTI ha annunciato di aver ricevuto una sovvenzione di sei milioni di dollari dall’Open Philanthropy Project – i cui maggiori finanziatori sono Cari Tuna e Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, entrambi “ispirati” dal bioeticista Peter Singer (che giustifica l’aborto anche dopo i tre mesi, l’infanticidio per motivi eugenetici, la morte volontaria, la sperimentazione sui cerebrolesi, ecc.) – destinata al finanziamento delle attività di mitigazione del minacce “biologiche globali che sono aumentate via via che il mondo si è fatto più interconnesso”. La NTI ha ricevuto un ulteriore supporto di 250.000 dalla Fondazione Bill & Melinda Gates per sviluppare un Indicatore di sicurezza sanitaria globale (Global Health Security Index), atto a valutare l’efficienza e l’efficacia dei programmi e delle politiche di un Paese in tema di sicurezza sanitaria.

Lo zampino di Bill non poteva, ovviamente mancare…

“Come si comporterebbe [Musk] nei confronti di qualcuno che dice che i vaccini uccidono le persone, o che Bill Gates le sta tracciando? Quando non hai personaggi fidati che parlano di vaccini, è piuttosto difficile per la piattaforma gestire tutto questo, penso che abbiamo un problema di leadership e un problema con la piattaforma.”

Così Bill Gates è intervenuto sul dibattito sulla libertà di espressione sui social, commentando l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk e palesando i propri timori sulla disinformazione on line e sul futuro del noto social. Il fondatore di Microsoft, ospite del Summit organizzato dal Wall Street Journal, ha affermato che Musk potrebbe peggiorare Twitter e che non andrebbe sottovalutato.

Secondo quanto riportato dalla CNBC, Gates ha annunciato di voler creare una squadra di 3.000 persone per combattere la disinformazione sui vaccini. Il filantrocapitalista ha affermato di volere che i social media diventino un luogo sicuro con “messaggi positivi” scritti da “persone di fiducia nella comunità, come i leader politici ed etnici.” Fuori dai denti: che a scrivere sui social siano solo quelli che piacciono ai padroni delle idee. E che i messaggi postati siano sempre in linea con la narrazione cara a Big Pharma e al pensiero unico.

Insomma, per prevenire una nuova politica su Twitter, dato che Musk si è più volte esposto a difesa della libertà di parola, Gates risponde invece invocando una stretta liberticida: più censura per salvaguardare l’informazione certificata che piace ai padroni delle idee. (vedi articolo)

Sfruttando il settore della “beneficenza”, l’influenza di Gates sta ormai investendo ogni settore, dall’educazione alla salute, dalle politiche sociali all’agricoltura, toccando persino l’informazione, inserendosi nel dibattito sulle fake news e arrivando a finanziare progetti legati al fact-checking volti di fatto a consolidare la narrativa pandemica, creare una informazione certificata e a legittimare la censura. Grazie alla sua fondazione, la Bill & Melinda Gates, il miliardario adotta lo stesso approccio monopolistico esercitato con Microsoft: grazie alla sua fondazione, ha iniziato a creare partnership pubblico-private e a relazionarsi con la comunità scientifica, le organizzazioni non governative e le istituzioni internazionali.

Se sono ormai arcinote le sue ingerenze in questi settori, solo recentemente si è scoperto che Gates ha finanziato in maniera silenziosa anche decine e decine di mass media, organizzazioni e associazioni giornalistiche, corsi di giornalismo investigativo e Università al fine di spingere la narrazione a lui gradita e plasmare l’opinione pubblica sui temi a lui cari, come riportava Michele Manfrin per L’Indipendente.

Ora il suo intervento contro Musk segue il solco tracciato da un altro filantrocapitalista, lo speculatore finanziario George Soros che ha deciso di investire nell’ennesima iniziativa per combattere le fake news. Insieme a Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn, ha investito nel progetto “Good Information”, nuova società che ha come obiettivo quello di sostenere le società dei media nella lotta alla disinformazione. Good Information mira a finanziare e sostenere realtà che fanno fact-checking, così come le redazioni locali. Oltre a Hoffman e Soros, nel progetto sono coinvolti anche Ken e Jen Duda e il fondo Incite Ventures.

Il gruppo è guidato da Tara McGowan, ex stratega democratica che in precedenza gestiva un’organizzazione no-profit progressista chiamata acronym e nelle scorse elezioni ha organizzato una campagna contro Donald Trump. Si parla di 100 milioni di dollari spesi per screditare Donald Trump. Inutile ricordare che Soros ha partecipato attivamente alle ultime campagne presidenziali, inondando di soldi i candidati democratici: solo nel 2020 ha investito quasi 50 milioni di dollari per sostenere Joe Biden, soldi fatti arrivare attraverso la rete Democracy pac.

E già a questo punto potrebbe sorgere il vago sospetto che l’obiettività politica della piattaforma sia solo un miraggio…

Un miraggio anche per la nuova struttura voluta dalla Casa Bianca. Nella settimana della giornata mondiale per la libertà di stampa, Biden è corso ai ripari per drenare il calo di consensi della sua amministrazione, crollata ai minimi storici, e per mettere un freno al dissenso con la costituzione del Disinformation Governance Board, un ufficio il cui scopo sarà quello di contrastare la disinformazione, che vede la luce in seno al Department of Homeland Security (DHS) statunitense (ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici).

Alla guida del Disinformation Governance Board ci sarà la debunker Nina Jankowicz, che vanta una cattedra da assistente al Wilson Center con specializzazione proprio in tecniche di disinformazione e, soprattutto, un ruolo da advisor presso il ministero degli Esteri di Kiev in seno a un’iniziativa patrocinata dalla Fulbright-Clinton Public Policy Fellowship. Infine, ha supervisionato i programmi in Russia e Bielorussia presso il National Democratic Institute. Per non farsi mancare nulla, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person”. Insomma, è politicamente corretta e sostiene la causa “gender”. E possiamo dire che appare ideologicamente schierata e non lo nasconde nemmeno.

Peccato che, sul fronte della disinformazione, la Jankowicz abbia dimostrato di avere non pochi problemi a distinguere la genuinità o meno di un’informazione… Riproponendo l’amletico dubbio: chi controlla i controllori nel campo dell’informazione e del debunking?

Insomma, non bastavano le schiere di fact-checkers, né Good Information e nemmeno il Miniver orwelliano di Biden. Mancava all’appello soltanto la squadra di Inquisitori digitali focalizzati sui vaccini al soldo di Bill Gates.

Per approfondimenti:

Nella settimana della giornata mondiale della libertà di stampa, ha destato scalpore un’inchiesta pubblicata dal New York Times, da cui emerge – citando alti dirigenti americani – che gli Usa hanno fornito informazioni di intelligence che hanno aiutato gli ucraini a colpire e uccidere numerosi generali russi morti in azione nel conflitto ucraino.

Un vero e proprio scoop, che è subito diventato un caso negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha attaccato frontalmente il quotidiano definendolo “irresponsabile”, cercando di smentirne la ricostruzione, sebbene il portavoce del Pentagono John F. Kirby, intervistato sulla questione ha riconosciuto che gli Stati Uniti forniscono “all’Ucraina informazioni e intelligence che possono usare per difendersi”. Adrienne Watson, una portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, ha precisato che queste risorse non sono state consegnate a Kiev “con l’intento di uccidere i generali russi”.

Ebbene, questo scoop è stato utilizzato dai media nostrani (in testa Gramellini: “Certi lussi possono concederseli soltanto le democrazie, mentre ogni giorno ci viene ampiamente ricordato da fior di democraticissimi postfascisti poststalinisti che gli Stati Uniti sono un regime liberticida.”) per sostenere che non vi sarebbe nessun problema di libertà di stampa o di pluralismo negli USA, sebbene la funzione primaria di cane da guardia del potere delle testate americane si è limitato negli anni. «Tacere una verità fa altrettanto male alla nostra comunità che diffondere una menzogna» scriveva Ben Bradlee del Washington Post. E l’America lo sa bene.

La difesa della libertà d’informazione, di critica e di investigazione giornalistica anche nei suoi eccessi ed errori, sono stati, fin dagli albori, più alti negli Stati Uniti di quanto l’Europa – e l’Italia in particolare – abbia mai abbia conosciuto. Non a caso l’Italia è ruzzolata al 58° posto nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa, perdendo nell’ultimo anno, ben 17 posizioni. Uno dei fattori che ha particolarmente influenzato la discesa in graduatoria dell’Italia, è l’autocensura: “I giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”, si legge nel report.

Tornando agli USA, che si piazzano al 42° posto, per i dem, la libertà di investigazione dei giornalisti è però ancora troppo serrata. E più in generale la libertà di informazione e di espressione, soprattutto se queste finiscono per non supportare acriticamente la narrazione del pensiero unico (come succede da noi). Non a caso si è cercato negli ultimi due anni di creare un’informazione certificata e di legittimare la censura delle notizie scomode. Arrivando persino a giustificare il ban da Twitter del Presidente americano.

E allora, tirando in ballo per l’ennesima volta il povero Orwell, Biden è corso ai ripari per drenare il calo di consensi della sua amministrazione, crollata ai minimi storici, per prevenire eventuali mosse di Musk volte a riportare la libertà di espressione su Twitter e per mettere un freno al dissenso.

Come? Con la costituzione del Disinformation Governance Board, struttura il cui scopo sarà quello di contrastare la disinformazione, che vede la luce in seno al Department of Homeland Security (DHS) statunitense (ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici). L’ufficio è stato istituito in fretta e furia in vista delle elezioni di MidTerm e si palesa come una specie di Miniver orwelliano.

Alla guida del Disinformation Governance Board ci sarà infatti la debunker Nina Jankowicz, che vanta una cattedra da assistente al Wilson Center con specializzazione proprio in tecniche di disinformazione e, soprattutto, un ruolo da advisor presso il ministero degli Esteri di Kiev in seno a un’iniziativa patrocinata dalla Fulbright-Clinton Public Policy Fellowship. Infine, ha supervisionato i programmi in Russia e Bielorussia presso il National Democratic Institute. Per non farsi mancare nulla, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person”. Insomma, è politicamente corretta e sostiene la causa “gender”. E possiamo dire che appare ideologicamente schierata e non lo nasconde nemmeno.

Peccato che, sul fronte della disinformazione, la Jankowicz abbia dimostrato di avere non pochi problemi a distinguere la genuinità o meno di un’informazione. Anzi, dati i precedenti, ha dimostrato di essere completamente inadeguata per questa mansione: ha bollato come fake news la storia del laptop di Hunter Biden (per lei era disinformazione del Cremlino e ovviamente c’era lo zampino di Trump) e ha invece accreditato come vero il falso dossier Steele. Un dossier che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex membro dell’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna ha ammesso in seguito, finanziato peraltro da Fusion Gps, dal Comitato nazionale democratico, dalla Campagna di Hillary Clinton e dal Washington Free Beacon. Inoltre, come anticipato, il suo ruolo richiederebbe un profilo super partes, non pare poter garantire.

È chiaro che alla debunker non interessa la ricerca della verità fine a se stessa, quanto semmai, in linea con l’operato del Miniver orwelliano, garantire l’infallibilità del suo datore di lavoro, in questo caso, non il Socing, ma un altro Partito, quello democratico.

Con il Disinformation Governance Board, l’America pare riscoprire la comodità della censura. Soprattutto in tempo di guerra. E la guerra contro la Russia, va vinta a tutti i costi, anche a colpi di censura. O di mistificazione. Un’arte che i debunkers e i “professionisti della disinformazione” conoscono molto bene di questi tempi…

La Commissione Giustizia della Camera ha adottato il testo base della legge che propone di perseguire la maternità surrogata come reato universale, anche se commesso all’estero. Come testo base è stato adottato quello di Giorgia Meloni e resta abbinata anche la pdl Mara Carfagna, come ha annunciato la relatrice Carolina Varchi (Fdi).

La legislazione italiana già vieta la pratica della maternità surrogata, reato definito nella legge 40 del 2006. Le pene sono la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Il testo base adottato dalla commissione aggiunge che “le pene si applicano anche se il fatto è commesso all’estero“.

Si tratta di un piccolo vasso nella battaglia per contrastare questa pratica barbarica. Il business dietro la maternità surrogata (miliardi di dollari l’anno) è infatti considerevole quanto drammatico e dovrebbe spingere l’opinione pubblica a riflettere sulle derive dell’attuale politica.

Dietro questo mercato globale si nascondono spesso tragedie umane, morti, abbandoni, condizioni di vita devastanti che spingono donne disperate ad accettare di affittare il proprio corpo per fare figli per i ricchi.

Più ci spostiamo nei Paesi poveri e in via di sviluppo e meno le donne guadagnano per la gestazione: sono tutte donne disperate, molte di loro hanno già diversi figli e lo fanno esclusivamente per denaro. Accettano il contratto legale che le costringe alla fine delle quaranta settimane, se il figlio è sano (altrimenti sono costrette ad abortire o a tenerselo senza soldi ovviamente), a cederlo ai genitori acquirenti.

In Oriente il servizio costa molto meno perché le madri surroganti non hanno una copertura sanitaria e rischiano persino la vita (ma questo è un problema collaterale per chi “compra” un bambino se si può risparmiare).

Nel subcontinente indiano, infatti, la situazione delle madri surroganti era talmente drammatica che la camera bassa indiana ha approvato nell’agosto 2019 il provvedimento che vieta in tutto il Paese la maternità surrogata a fini commerciali (leggi articolo). La legge autorizza la gestazione surrogata solo nel caso di scelta altruistica, tra persone della stessa famiglia, e solo per le coppie di indiani sposate da almeno 5 anni che non abbiano altri figli viventi.

Il provvedimento mette quindi fuorilegge le oltre 3000 cliniche private che dal 2001 prosperavano in tutto il Paese, con coppie in cerca di figli che arrivavano da tutto il mondo, e un giro d’affari di milioni di dollari. Non basta perché le cliniche hanno già iniziato negli ultimi mesi a spostarsi negli altri Paesi, ma è comunque un inizio.

Le donne firmano contratti tra le parti che non prevedono nessun supporto medico o economico in caso di malori post parto e vengono spinte a parti cesarei per non mettere a rischio la nascita dei bambini. In alcuni casi vengono sottoposte a trattamenti ormonali pericolosi per la salute, con l’obiettivo di aumentare la percentuale di successo del concepimento.

Si sfrutta cioè il corpo di una donna per ottenere il massimo profitto, proprio come nell’industria. Perché è esattamente questo: una fabbrica fordiana di bambini.

Specchio di una forma di schiavismo moderno, in cui il corpo della donna viene equiparato a un forno e il prodotto che ne deriva (il neonato) può essere ceduto come semplice merce. Addirittura rimandato indietro se non soddisfa l’acquirente, come diversi casi di cronaca attestano.

Oggi dobbiamo purtroppo constatare che ogni cosa è diventata merce, anche la vita. La tecnica, scollata dall’etica, è ormai asservita al mercato e anzi, tecnica e mercato sembrano ormai sulla buona strada di asservire l’uomo, diventando i padroni del nostro futuro. Siamo nel pieno dominio della tecnocrazia, asserviti alle multinazionali che ci plasmano a suon di slogan inducendoci a consumare oggetti, cibo con pesticidi, ormoni, vitamine sintetiche.

E dal cibo che ci nutre siamo passati ai figli, che si vogliono a tutti i costi anche quando la natura nega questo privilegio, che si desiderano come se fossero bambole, che si fabbricano su misura per capriccio, che si strappano alle madri surroganti che li hanno nutriti con il sangue, il cibo, le proprie emozioni per nove mesi.

Credo che sia in atto un ribaltamento del pensiero e uno svuotamento dei termini, una manipolazione della realtà e delle menti per introdurre pratiche ultra-capitalistiche moralmente inaccettabili: è proprio in questi frangenti che chi è contrario o preoccupato dovrebbe prendere posizione per denunciare la deriva morale, etica e sociale in atto.

Qua non c’entra essere di destra o di sinistra, importa recuperare una morale ed essere in pace con se stessi. Per non essere complici, per difendere la vita di quegli esseri che non hanno chiesto di essere “fabbricati” e tantomeno di essere “venduti” come merce: i bambini.

Per approfondimenti:

Si tratta di uno dei temi più delicati e controversi nel campo della controinformazione: fino a qualche anno fa l’argomento era accuratamente evitato dai media mainstream: chi ne parlava era liquidato come un visionario e un complottista.

Nulla di nuovo, insomma. L’idea era che i chip fossero una bufala (come tanti altri argomenti scomodi) e che non esistesse nessun piano segreto per impiantarli nella popolazione (o spingere i cittadini a farseli impiantare volontariamente) per controllarla. Chi provava a proporre un dibattito era liquidato come un visionario e perseguitato dai debunkers a cui oggi si vuole affidare il controllo dell’informazione.

Negli anni la tematica è tornata più volte alla ribalta, venendo sempre tacciata come l’emblema delle paranoie cospirazioniste. Eppure…

Oggi la BBC celebra il fenomeno dei microchip sottopelle con l’intervista a Patrick Peuman, addetto alla sicurezza olandese di 37 anni che si definisce un biohacker. L’intervista è diventata virale e ha fatto il giro del mondo.

Peuman ha 32 chip impiantati sotto pelle, per pagare avvicinando mano al Pos, aprire le porte e fare molto altro ancora.

“La tecnologia continua a evolversi, quindi continuo a collezionarne di più e non vorrei vivere senza di loro”, ha spiegato Peuman, sottolineando di non avere preoccupazioni né per la sicurezza né per la privacy perché “gli impianti contengono lo stesso tipo di tecnologia che le persone utilizzano quotidianamente. Dai telecomandi per aprire le porte, alle carte bancarie o quelle per il trasporto pubblico”.

La BBC riporta inoltre un sondaggio del 2021 condotto su 4.000 europei da cui si evince che il 51% degli intervistati prenderebbe in considerazione l’idea dell’installazione di un chip sotto pelle.

Il processo di “normalizzazione” del fenomeno del biohacking sta avvenendo negli ultimi anni in maniera costante e graduale, rispettando le tappe imposte dalla Finestra di Overton. Per biohacking s’intende l’insieme di sostanze e impianti sviluppati allo scopo di migliorare e potenziare le prestazioni dell’essere umano, per superarne i limiti fisici, come chi prova a hackare il ritmo del sonno o, passando ad approcci più estremi, usando la tecnologia e internet sottopelle –

Come anticipato, da delirio cospirazionista, il chipping è diventato quasi una moda e viene trattato dai media mainstream con un misto di fascino e curiosità, portando al graduale sdoganamento del fenomeno.

Già nel marzo 2016 sul sito www.repubblica.it la giornalista Ilaria Ravarino aveva firmato un articolo sul mercato dei chip dermali NFC (Near Field Communication) dopo essere stata a Cebit, la grande fiera della tecnologia di Hannover. Allo stand della microazienda di biohacking, Dangerous Things, si impiantavano chip dermali: si tratta, chiosava la giornalista, di piccoli oggetti di vetro poco più grandi di un chicco di riso, che vengono sparati da una siringa tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Intervistato da Ravarino, il fondatore di Dangerous Things, Amal Graafstra, ha spiegato la funzione degli impianti: «Grazie ai chip mi sono liberato di chiavi, password e pin». Nell’articolo si mostrava inoltre il passaggio dai “vecchi” chip a tecnologia rfid a quelli NCF.

Ecco che oggi il mercato dei chip dermali è realtà e ne parlano sempre più spesso − il più delle volte con entusiasmo − anche i media mainstream, inculcando nell’opinione pubblica l’idea che tutto ciò sia “utile”, comodo e di tendenza. Addirittura, “fashion”. La gente fa così la fila agli stand della fiera del tech per farsi impiantare e poter così eliminare schede, chiavi, password. Insomma, ci si fa microchippare per “comodità”, senza minimamente pensare alle conseguenze “sociali” del gesto.

Un’altra tendenza che si è registrata negli ultimi anni è quella che vede le aziende incentivare il chippaggio da parte dei propri dipendenti. I manager della statunitense Three Square Market (32M) hanno proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda: password, codici di accesso, autorizzazioni a sbloccare serrature, ecc. La 32M è una startup che fornisce a uffici e negozi macchinette e software per la pausa pranzo e ha stretto un accordo con la svedese BioHax International, produttrice in sensori biometrici.

«I microchip sono il futuro nel campo dei pagamenti – ha spiegato Tony Danna, vice presidente della società – e il nostro obiettivo finale è eliminare il portafoglio».

Sul sito dell’azienda, la Three Square Market assicura che i chip non contengono un GPS e che quindi non consentono di tracciare i movimenti degli impiegati (e di controllarli). Il chip contiene solo le informazioni che i dipendenti scelgono di associargli e sono criptati.

L’iniziativa ha ovviamente destato clamore e non è isolata perché sono diverse le aziende in tutto il mondo che stanno adottando questo stratagemma: una tra tutte la svedese Epicenter, impegnata nel settore high tech: 150 dipendenti dei suoi dipendenti hanno deciso volontariamente di sottoporsi al mini intervento di chippaggio.

Da quel momento in poi, il lavoratore che si è sottoposto all’intervento può utilizzare la propria mano come badge, per aprire le porte o per interagire con le macchine dell’azienda, o anche per effettuare pagamenti. Chi non voglia sottoporsi all’iniezione non subisce alcuna ripercussione sulla carriera: il chip però è diventato talmente popolare che chi lavora nella sede di Epicenter ha preso l’abitudine di festeggiare con un party ogni nuovo volontario che scelga di impiantarsi il chip nella mano.

La tematica è delicata perché, come anticipavo, è sempre stata liquidata come una paranoia cospirazionista: i chip non esistono e nessuno se li impianta. Come succede spesso nel campo della controinformazione, le notizie che vengono liquidate come “fake news” si confermano poi come “vere” dopo qualche anno, dando ragione a quei ricercatori che nel frattempo sono stati screditati come dei pazzi visionari. La tematica dei microchip rientra a pieno titolo tra queste e la graduale diffusione dei chip non sta avvenendo in modo coercitivo (l’obbligo spingerebbe la popolazione a ribellarsi) ma incentivando le persone a farseli impiantare in modo volontario.

Si vuole abituare la popolazione ad abbracciare con entusiasmo queste nuove modalità “tecnologiche”: l’obiettivo è stringere sempre più le maglie del controllo e della sorveglianza tecnologica, dall’altra legittimare l’abolizione del contante.

È evidente che per controllare la popolazione (e limitarne la privacy) si sta da un lato rendendo “alla moda” il chip sottocutaneo, spingendo così la popolazione a “correre” a farselo impiantare volontariamente per comodità, dall’altra si sta strumentalizzando la questione delle pandemie e del registro digitale per spingere persino i governi a sottoscrivere dei programmi che possano in futuro prevedere il ricorso a tali dispositivi.

Un esempio è il progetto ID2020, di cui già parlavo in Coronavirus. Il nemico invisibile, che si pone infatti l’obiettivo di portare all’identificazione digitale tramite l’inserimento di un microchip sottopelle che conterrebbe le informazioni personali dei cittadini ma allo stesso tempo consentirebbe anche di somministrare i vaccini sotto forma digitale. Al di là delle possibili speculazioni, è chiaro che Big Pharma stia collaborando con l’industria tecnologica per conciliare l’immunizzazione con la biometria digitale, e che uno degli scopi di questo progetto sia proprio quello di impiantare microchip sottopelle.

Se fino a qualche anno fa si tendeva a derubricare la tematica come una fantasia complottista, oggi si annoverano persone che si fanno impiantare i chip sottopelle al posto del telecomando della propria auto o per fare a meno di pin, password e contanti. In un futuro non troppo lontano, forse, i chip verranno utilizzati per l’identità digitale dei cittadini.

L’imposizione o le modalità segrete hanno infatti scarso successo e basta “plasmare” l’opinione pubblica per gradi facendo conoscere i benefici, in questo caso dei chip, a scapito dei risvolti ambigui o addirittura pericolosi di essi. Non ci sarebbe bisogno di costringere nessuno (o quasi) e di imporre l’obbligo dell’impianto. Ci sarebbe la fila di persone pronte a farselo impiantare.

Possiamo immaginare come il controllo già capillare e pervasivo nella nostra società (pensiamo a telecamere, satelliti e ai cellulari che permettono di rintracciare chiunque ovunque si trovi) sarebbe completo in caso di chipping di tutta la popolazione: ognuno di noi sarebbe un “uomo di vetro”, trasparente, sotto costante sorveglianza. Lo sguardo elettronico del Governo ci seguirebbe in ogni attimo della nostra esistenza.


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