Enrica Perucchietti – Blog

Giornalista e scrittrice. Ciò che le TV e i media non ti dicono

Si tratta di uno dei temi più delicati e controversi nel campo della controinformazione: fino a qualche anno fa l’argomento era accuratamente evitato dai media mainstream: chi ne parlava era liquidato come un visionario e un complottista.

Nulla di nuovo, insomma. L’idea era che i chip fossero una bufala (come tanti altri argomenti scomodi) e che non esistesse nessun piano segreto per impiantarli nella popolazione (o spingere i cittadini a farseli impiantare volontariamente) per controllarla. Chi provava a proporre un dibattito era liquidato come un visionario e perseguitato dai debunkers a cui oggi si vuole affidare il controllo dell’informazione.

Negli anni la tematica è tornata più volte alla ribalta, venendo sempre tacciata come l’emblema delle paranoie cospirazioniste. Eppure…

Oggi la BBC celebra il fenomeno dei microchip sottopelle con l’intervista a Patrick Peuman, addetto alla sicurezza olandese di 37 anni che si definisce un biohacker. L’intervista è diventata virale e ha fatto il giro del mondo.

Peuman ha 32 chip impiantati sotto pelle, per pagare avvicinando mano al Pos, aprire le porte e fare molto altro ancora.

“La tecnologia continua a evolversi, quindi continuo a collezionarne di più e non vorrei vivere senza di loro”, ha spiegato Peuman, sottolineando di non avere preoccupazioni né per la sicurezza né per la privacy perché “gli impianti contengono lo stesso tipo di tecnologia che le persone utilizzano quotidianamente. Dai telecomandi per aprire le porte, alle carte bancarie o quelle per il trasporto pubblico”.

La BBC riporta inoltre un sondaggio del 2021 condotto su 4.000 europei da cui si evince che il 51% degli intervistati prenderebbe in considerazione l’idea dell’installazione di un chip sotto pelle.

Il processo di “normalizzazione” del fenomeno del biohacking sta avvenendo negli ultimi anni in maniera costante e graduale, rispettando le tappe imposte dalla Finestra di Overton. Per biohacking s’intende l’insieme di sostanze e impianti sviluppati allo scopo di migliorare e potenziare le prestazioni dell’essere umano, per superarne i limiti fisici, come chi prova a hackare il ritmo del sonno o, passando ad approcci più estremi, usando la tecnologia e internet sottopelle –

Come anticipato, da delirio cospirazionista, il chipping è diventato quasi una moda e viene trattato dai media mainstream con un misto di fascino e curiosità, portando al graduale sdoganamento del fenomeno.

Già nel marzo 2016 sul sito www.repubblica.it la giornalista Ilaria Ravarino aveva firmato un articolo sul mercato dei chip dermali NFC (Near Field Communication) dopo essere stata a Cebit, la grande fiera della tecnologia di Hannover. Allo stand della microazienda di biohacking, Dangerous Things, si impiantavano chip dermali: si tratta, chiosava la giornalista, di piccoli oggetti di vetro poco più grandi di un chicco di riso, che vengono sparati da una siringa tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Intervistato da Ravarino, il fondatore di Dangerous Things, Amal Graafstra, ha spiegato la funzione degli impianti: «Grazie ai chip mi sono liberato di chiavi, password e pin». Nell’articolo si mostrava inoltre il passaggio dai “vecchi” chip a tecnologia rfid a quelli NCF.

Ecco che oggi il mercato dei chip dermali è realtà e ne parlano sempre più spesso − il più delle volte con entusiasmo − anche i media mainstream, inculcando nell’opinione pubblica l’idea che tutto ciò sia “utile”, comodo e di tendenza. Addirittura, “fashion”. La gente fa così la fila agli stand della fiera del tech per farsi impiantare e poter così eliminare schede, chiavi, password. Insomma, ci si fa microchippare per “comodità”, senza minimamente pensare alle conseguenze “sociali” del gesto.

Un’altra tendenza che si è registrata negli ultimi anni è quella che vede le aziende incentivare il chippaggio da parte dei propri dipendenti. I manager della statunitense Three Square Market (32M) hanno proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda: password, codici di accesso, autorizzazioni a sbloccare serrature, ecc. La 32M è una startup che fornisce a uffici e negozi macchinette e software per la pausa pranzo e ha stretto un accordo con la svedese BioHax International, produttrice in sensori biometrici.

«I microchip sono il futuro nel campo dei pagamenti – ha spiegato Tony Danna, vice presidente della società – e il nostro obiettivo finale è eliminare il portafoglio».

Sul sito dell’azienda, la Three Square Market assicura che i chip non contengono un GPS e che quindi non consentono di tracciare i movimenti degli impiegati (e di controllarli). Il chip contiene solo le informazioni che i dipendenti scelgono di associargli e sono criptati.

L’iniziativa ha ovviamente destato clamore e non è isolata perché sono diverse le aziende in tutto il mondo che stanno adottando questo stratagemma: una tra tutte la svedese Epicenter, impegnata nel settore high tech: 150 dipendenti dei suoi dipendenti hanno deciso volontariamente di sottoporsi al mini intervento di chippaggio.

Da quel momento in poi, il lavoratore che si è sottoposto all’intervento può utilizzare la propria mano come badge, per aprire le porte o per interagire con le macchine dell’azienda, o anche per effettuare pagamenti. Chi non voglia sottoporsi all’iniezione non subisce alcuna ripercussione sulla carriera: il chip però è diventato talmente popolare che chi lavora nella sede di Epicenter ha preso l’abitudine di festeggiare con un party ogni nuovo volontario che scelga di impiantarsi il chip nella mano.

La tematica è delicata perché, come anticipavo, è sempre stata liquidata come una paranoia cospirazionista: i chip non esistono e nessuno se li impianta. Come succede spesso nel campo della controinformazione, le notizie che vengono liquidate come “fake news” si confermano poi come “vere” dopo qualche anno, dando ragione a quei ricercatori che nel frattempo sono stati screditati come dei pazzi visionari. La tematica dei microchip rientra a pieno titolo tra queste e la graduale diffusione dei chip non sta avvenendo in modo coercitivo (l’obbligo spingerebbe la popolazione a ribellarsi) ma incentivando le persone a farseli impiantare in modo volontario.

Si vuole abituare la popolazione ad abbracciare con entusiasmo queste nuove modalità “tecnologiche”: l’obiettivo è stringere sempre più le maglie del controllo e della sorveglianza tecnologica, dall’altra legittimare l’abolizione del contante.

È evidente che per controllare la popolazione (e limitarne la privacy) si sta da un lato rendendo “alla moda” il chip sottocutaneo, spingendo così la popolazione a “correre” a farselo impiantare volontariamente per comodità, dall’altra si sta strumentalizzando la questione delle pandemie e del registro digitale per spingere persino i governi a sottoscrivere dei programmi che possano in futuro prevedere il ricorso a tali dispositivi.

Un esempio è il progetto ID2020, di cui già parlavo in Coronavirus. Il nemico invisibile, che si pone infatti l’obiettivo di portare all’identificazione digitale tramite l’inserimento di un microchip sottopelle che conterrebbe le informazioni personali dei cittadini ma allo stesso tempo consentirebbe anche di somministrare i vaccini sotto forma digitale. Al di là delle possibili speculazioni, è chiaro che Big Pharma stia collaborando con l’industria tecnologica per conciliare l’immunizzazione con la biometria digitale, e che uno degli scopi di questo progetto sia proprio quello di impiantare microchip sottopelle.

Se fino a qualche anno fa si tendeva a derubricare la tematica come una fantasia complottista, oggi si annoverano persone che si fanno impiantare i chip sottopelle al posto del telecomando della propria auto o per fare a meno di pin, password e contanti. In un futuro non troppo lontano, forse, i chip verranno utilizzati per l’identità digitale dei cittadini.

L’imposizione o le modalità segrete hanno infatti scarso successo e basta “plasmare” l’opinione pubblica per gradi facendo conoscere i benefici, in questo caso dei chip, a scapito dei risvolti ambigui o addirittura pericolosi di essi. Non ci sarebbe bisogno di costringere nessuno (o quasi) e di imporre l’obbligo dell’impianto. Ci sarebbe la fila di persone pronte a farselo impiantare.

Possiamo immaginare come il controllo già capillare e pervasivo nella nostra società (pensiamo a telecamere, satelliti e ai cellulari che permettono di rintracciare chiunque ovunque si trovi) sarebbe completo in caso di chipping di tutta la popolazione: ognuno di noi sarebbe un “uomo di vetro”, trasparente, sotto costante sorveglianza. Lo sguardo elettronico del Governo ci seguirebbe in ogni attimo della nostra esistenza.


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