Enrica Perucchietti – Blog

Giornalista e scrittrice. Ciò che le TV e i media non ti dicono

In questi giorni, presso il quartiere generale delle Nazioni Unite a Ginevra, si tiene la settantacinquesima Assemblea mondiale della Sanità, alla presenza dei delegati delle 196 nazioni appartenenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Costoro sono chiamati a votare degli emendamenti alle International Health Regulations (IHR) risalenti al 2005. L’obiettivo è quello di sottoscrivere un trattato pandemico internazionale in modo da creare una risposta centralizzata e internazionale alle emergenze sanitarie che detti la via in modo univoco per tutti (leggi articolo). In questo modo si cederebbe la sovranità nazionale in ambito sanitario all’OMS.

Casualmente, in proprio in questi giorni, si è anche presentata la nuova “minaccia globale” che, oltre a tenere alto il clima di terrorismo mediatico che era crollato con il conflitto russo-ucraino, pare poter legittimare la cessione della sovranità relativa alla salute dei cittadini a un organismo sovranazionale. Si tratta, ovviamente del monkeypox virus, il vaiolo delle scimmie.

A spianare la strada all’ennesimo virus era intervenuto pochi giorni fa Bill Gates che, in vista dell’uscita del suo libro How To Prevent the Next Pandemic, in un’intervista al Financial Times, ha messo in guardia l’opinione pubblica sul rischio di una nuova variante “più trasmissibile e più mortale” della Covid-19 ma anche sull’arrivo di nuove future pandemie.

Secondo Gates, per evitare la prossima pandemia servono più investimenti e la creazione di una squadra di epidemiologi ed esperti per prevenire e identificare rapidamente le minacce alla salute globale e migliorare la cooperazione fra i Paesi.

Il vaticinio da corvo di Gates riecheggiava ancora nelle menti disorientate dei cittadini di mezzo mondo, che ecco palesarsi i primi casi di monkeypox.

Questo, però, è solo l’antipasto. A Gates è toccato questo volta spianare il terreno. Terrorizzare un po’ l’opinione pubblica (e promuovere il suo libro), per riportare all’ovile coloro che pensavano di essersi lasciati alle spalle l’incubo del coronavirus.

Come già accaduto in passato, ci troviamo di fronte all’ennesima profezia che, curiosamente, si “autoavvera”. Perché, sia ben chiaro, i complottisti non siamo noi (nel senso che non siamo noi a ordire i complotti, semmai ci limitiamo a pensare “male”), e accertiamo la curiosa sincronicità.

Torniamo alle profezie che si autoavverano.

Ci sono dei pensatoi (i cosiddetti think tank) che si occupano di stilare dei documenti programmatici in cui “immaginano” il futuro (come il celebre Memorandum Rockefeller di cui parlavo in Governo Globale) oppure di simulare catastrofi o pandemie che poi si realizzano casualmente da lì a poco.

Insomma, leggendo con malizia, a posteriori, questi documenti, sembra di trovarsi dinanzi a delle sceneggiature in piena regola. Ma noi non siamo maliziosi, e pensiamo solo che Gates e i suoi colleghi filantrocapitalisti siano dotati di una sensibilità estrema nell’immaginare il futuro.

Ricorderete che qualcosa di simile è avvenuto nell’ottobre del 2019 con la pandemia da Covid-19: una simulazione particolare che ricorda i cosiddetti “war games” di cui ho ampiamente trattato in False Flag. Con l’espressione “war games” si intende lo schema di concomitanza tra simulazioni antiterroristiche e attacchi terroristici (veri). La scena del crimine “reale”, ossia degli attacchi terroristici, finisce per ricalcare simulazioni in corso degli apparati di sicurezza, generando panico e confusione tra ciò che è appunto vero, reale e ciò che è invece virtuale, simulato (l’esercitazione).

A New York il 18 ottobre 2019 viene eseguita una simulazione di pandemia del massimo livello, il cui nome in codice è “Event 201 Pandemic Exercise” e di cui esiste persino un dettagliato sito internet. Proprio sul sito possiamo leggere che tra gli organizzatori figurano il Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum (riunito in questi giorni a Davos) e la onnipresente Fondazione Bill & Melissa Gates. Lo scopo è gestire e ridurre le conseguenze economiche e sociali su larga scala di un’eventuale epidemia da coronavirus che potrebbe causare “65 milioni” di vittime”.

Lo stesso giorno in cui avviene l’esercitazione a New York, circa 300 atleti miliari americani sbarcano a Wuhan insieme ad altri atleti delle forze armate di 140 nazioni per partecipare al Military World Games. Sappiamo bene cosa è accaduto nei mesi successivi.

Passiamo ora a un’altra “simulazione”. Che supera di gran lungo le “previsioni” inquietanti ma ancora vaghe di Gates (leggi articolo).

Il 17 marzo 2021, quindi oltre un anno fa, la Nuclear Threat Initiative (NTI) e la Munich Security Conference, in consultazione con 19 esperti tecnici e politici, hanno simulato in maniera virtuale una esercitazione, immaginando un attacco localizzato di armi biologiche che genera una pandemia globale mortale per la prima volta nella nazione immaginaria di Brinia. Il virus utilizzato è quello geneticamente modificato del vaiolo delle scimmie e la data di inizio dell’attacco bioterroristico è il 15 maggio 2022 (come potete osservare dallo screenshot di p. 11 del documento):

In 18 mesi, lo scenario si evolve in una pandemia catastrofica a livello globale, con il 40% della popolazione mondiale infetta e oltre un quarto di miliardo di persone morte: più di tre miliardi di casi e 270 milioni di vittime in tutto il mondo.

Il report, Strengthening Global Systems to Prevent and Respond to High-Consequence Biological Threats: Results from the 2021 Tabletop Exercise Conducted in Partnership with the Munich Security Conference, è curato da Jaime M. Yassif, Ph.D., Kevin P. O’Prey, Ph.D., Christopher R. Isaac, M.Sc.

Sul sito leggiamo che «L’impatto del COVID-19 ha fornito uno sfondo urgente per questo esercizio, poiché la pandemia in corso ha evidenziato debolezze nell’architettura internazionale per prevenire, rilevare e rispondere alle minacce pandemiche. Questa è una preoccupazione urgente perché le future pandemie potrebbero eguagliare o superare l’impatto devastante del COVID-19 sulle vite perse e sulle economie distrutte. Ancora più preoccupante è che ci sono lacune critiche nella supervisione della biotecnologia che creano opportunità per un uso improprio accidentale o deliberato con conseguenze globali potenzialmente catastrofiche. Ciò è stato illustrato nello scenario dell’esercitazione: un attacco localizzato di armi biologiche con un virus del vaiolo delle scimmie geneticamente modificato inizia nel paese immaginario di Brinia. In 18 mesi, lo scenario si evolve in una pandemia catastrofica a livello globale, con il 40% della popolazione mondiale infetta e oltre un quarto di miliardo di persone morte».

Lo scenario dell’esercizio fittizio si è sviluppato gradualmente attraverso una serie di brevi video a cui i partecipanti hanno reagito durante una discussione. Sono emersi temi chiave in merito alla necessità di rafforzare i sistemi internazionali di valutazione del rischio pandemico e di allerta precoce; stabilire chiari fattori scatenanti per una risposta preventiva a livello nazionale e un’azione precoce aggressiva per rallentare la trasmissione delle malattie e salvare vite umane; ridurre i rischi della biotecnologia e rafforzare il controllo della ricerca nel campo delle scienze della vita; e promuovere nuovi e più forti meccanismi internazionali di finanziamento della preparazione alla sicurezza sanitaria.

Nuclear Threat Initiative (NTI) è una onlus americana fondata nel 2001 dall’ex senatore democratico Sam Nunn e dal filantrocapitalista Ted Turner. Lo scopo è quello di prevenire attacchi e incidenti catastrofici condotti con armi di distruzione di massa e armi di disturbo – di tipo nucleare, biologico, radiologico, chimico – nonché le minacce alla sicurezza informatica. Nel board siedono oltre a Nunn e a Turner, Des Browne (Membro della Camera dei Lord britannica), Joan Rohlfing e il fisico e politico statunitense, già Segretario dell’Energia nell’amministrazione Obama dal 2013 al 2017, Ernest J. Moniz.

Nel gennaio 2018, NTI ha annunciato di aver ricevuto una sovvenzione di sei milioni di dollari dall’Open Philanthropy Project – i cui maggiori finanziatori sono Cari Tuna e Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, entrambi “ispirati” dal bioeticista Peter Singer (che giustifica l’aborto anche dopo i tre mesi, l’infanticidio per motivi eugenetici, la morte volontaria, la sperimentazione sui cerebrolesi, ecc.) – destinata al finanziamento delle attività di mitigazione del minacce “biologiche globali che sono aumentate via via che il mondo si è fatto più interconnesso”. La NTI ha ricevuto un ulteriore supporto di 250.000 dalla Fondazione Bill & Melinda Gates per sviluppare un Indicatore di sicurezza sanitaria globale (Global Health Security Index), atto a valutare l’efficienza e l’efficacia dei programmi e delle politiche di un Paese in tema di sicurezza sanitaria.

Lo zampino di Bill non poteva, ovviamente mancare…

“Come si comporterebbe [Musk] nei confronti di qualcuno che dice che i vaccini uccidono le persone, o che Bill Gates le sta tracciando? Quando non hai personaggi fidati che parlano di vaccini, è piuttosto difficile per la piattaforma gestire tutto questo, penso che abbiamo un problema di leadership e un problema con la piattaforma.”

Così Bill Gates è intervenuto sul dibattito sulla libertà di espressione sui social, commentando l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk e palesando i propri timori sulla disinformazione on line e sul futuro del noto social. Il fondatore di Microsoft, ospite del Summit organizzato dal Wall Street Journal, ha affermato che Musk potrebbe peggiorare Twitter e che non andrebbe sottovalutato.

Secondo quanto riportato dalla CNBC, Gates ha annunciato di voler creare una squadra di 3.000 persone per combattere la disinformazione sui vaccini. Il filantrocapitalista ha affermato di volere che i social media diventino un luogo sicuro con “messaggi positivi” scritti da “persone di fiducia nella comunità, come i leader politici ed etnici.” Fuori dai denti: che a scrivere sui social siano solo quelli che piacciono ai padroni delle idee. E che i messaggi postati siano sempre in linea con la narrazione cara a Big Pharma e al pensiero unico.

Insomma, per prevenire una nuova politica su Twitter, dato che Musk si è più volte esposto a difesa della libertà di parola, Gates risponde invece invocando una stretta liberticida: più censura per salvaguardare l’informazione certificata che piace ai padroni delle idee. (vedi articolo)

Sfruttando il settore della “beneficenza”, l’influenza di Gates sta ormai investendo ogni settore, dall’educazione alla salute, dalle politiche sociali all’agricoltura, toccando persino l’informazione, inserendosi nel dibattito sulle fake news e arrivando a finanziare progetti legati al fact-checking volti di fatto a consolidare la narrativa pandemica, creare una informazione certificata e a legittimare la censura. Grazie alla sua fondazione, la Bill & Melinda Gates, il miliardario adotta lo stesso approccio monopolistico esercitato con Microsoft: grazie alla sua fondazione, ha iniziato a creare partnership pubblico-private e a relazionarsi con la comunità scientifica, le organizzazioni non governative e le istituzioni internazionali.

Se sono ormai arcinote le sue ingerenze in questi settori, solo recentemente si è scoperto che Gates ha finanziato in maniera silenziosa anche decine e decine di mass media, organizzazioni e associazioni giornalistiche, corsi di giornalismo investigativo e Università al fine di spingere la narrazione a lui gradita e plasmare l’opinione pubblica sui temi a lui cari, come riportava Michele Manfrin per L’Indipendente.

Ora il suo intervento contro Musk segue il solco tracciato da un altro filantrocapitalista, lo speculatore finanziario George Soros che ha deciso di investire nell’ennesima iniziativa per combattere le fake news. Insieme a Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn, ha investito nel progetto “Good Information”, nuova società che ha come obiettivo quello di sostenere le società dei media nella lotta alla disinformazione. Good Information mira a finanziare e sostenere realtà che fanno fact-checking, così come le redazioni locali. Oltre a Hoffman e Soros, nel progetto sono coinvolti anche Ken e Jen Duda e il fondo Incite Ventures.

Il gruppo è guidato da Tara McGowan, ex stratega democratica che in precedenza gestiva un’organizzazione no-profit progressista chiamata acronym e nelle scorse elezioni ha organizzato una campagna contro Donald Trump. Si parla di 100 milioni di dollari spesi per screditare Donald Trump. Inutile ricordare che Soros ha partecipato attivamente alle ultime campagne presidenziali, inondando di soldi i candidati democratici: solo nel 2020 ha investito quasi 50 milioni di dollari per sostenere Joe Biden, soldi fatti arrivare attraverso la rete Democracy pac.

E già a questo punto potrebbe sorgere il vago sospetto che l’obiettività politica della piattaforma sia solo un miraggio…

Un miraggio anche per la nuova struttura voluta dalla Casa Bianca. Nella settimana della giornata mondiale per la libertà di stampa, Biden è corso ai ripari per drenare il calo di consensi della sua amministrazione, crollata ai minimi storici, e per mettere un freno al dissenso con la costituzione del Disinformation Governance Board, un ufficio il cui scopo sarà quello di contrastare la disinformazione, che vede la luce in seno al Department of Homeland Security (DHS) statunitense (ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici).

Alla guida del Disinformation Governance Board ci sarà la debunker Nina Jankowicz, che vanta una cattedra da assistente al Wilson Center con specializzazione proprio in tecniche di disinformazione e, soprattutto, un ruolo da advisor presso il ministero degli Esteri di Kiev in seno a un’iniziativa patrocinata dalla Fulbright-Clinton Public Policy Fellowship. Infine, ha supervisionato i programmi in Russia e Bielorussia presso il National Democratic Institute. Per non farsi mancare nulla, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person”. Insomma, è politicamente corretta e sostiene la causa “gender”. E possiamo dire che appare ideologicamente schierata e non lo nasconde nemmeno.

Peccato che, sul fronte della disinformazione, la Jankowicz abbia dimostrato di avere non pochi problemi a distinguere la genuinità o meno di un’informazione… Riproponendo l’amletico dubbio: chi controlla i controllori nel campo dell’informazione e del debunking?

Insomma, non bastavano le schiere di fact-checkers, né Good Information e nemmeno il Miniver orwelliano di Biden. Mancava all’appello soltanto la squadra di Inquisitori digitali focalizzati sui vaccini al soldo di Bill Gates.

Per approfondimenti:

Nella settimana della giornata mondiale della libertà di stampa, ha destato scalpore un’inchiesta pubblicata dal New York Times, da cui emerge – citando alti dirigenti americani – che gli Usa hanno fornito informazioni di intelligence che hanno aiutato gli ucraini a colpire e uccidere numerosi generali russi morti in azione nel conflitto ucraino.

Un vero e proprio scoop, che è subito diventato un caso negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha attaccato frontalmente il quotidiano definendolo “irresponsabile”, cercando di smentirne la ricostruzione, sebbene il portavoce del Pentagono John F. Kirby, intervistato sulla questione ha riconosciuto che gli Stati Uniti forniscono “all’Ucraina informazioni e intelligence che possono usare per difendersi”. Adrienne Watson, una portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, ha precisato che queste risorse non sono state consegnate a Kiev “con l’intento di uccidere i generali russi”.

Ebbene, questo scoop è stato utilizzato dai media nostrani (in testa Gramellini: “Certi lussi possono concederseli soltanto le democrazie, mentre ogni giorno ci viene ampiamente ricordato da fior di democraticissimi postfascisti poststalinisti che gli Stati Uniti sono un regime liberticida.”) per sostenere che non vi sarebbe nessun problema di libertà di stampa o di pluralismo negli USA, sebbene la funzione primaria di cane da guardia del potere delle testate americane si è limitato negli anni. «Tacere una verità fa altrettanto male alla nostra comunità che diffondere una menzogna» scriveva Ben Bradlee del Washington Post. E l’America lo sa bene.

La difesa della libertà d’informazione, di critica e di investigazione giornalistica anche nei suoi eccessi ed errori, sono stati, fin dagli albori, più alti negli Stati Uniti di quanto l’Europa – e l’Italia in particolare – abbia mai abbia conosciuto. Non a caso l’Italia è ruzzolata al 58° posto nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa, perdendo nell’ultimo anno, ben 17 posizioni. Uno dei fattori che ha particolarmente influenzato la discesa in graduatoria dell’Italia, è l’autocensura: “I giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”, si legge nel report.

Tornando agli USA, che si piazzano al 42° posto, per i dem, la libertà di investigazione dei giornalisti è però ancora troppo serrata. E più in generale la libertà di informazione e di espressione, soprattutto se queste finiscono per non supportare acriticamente la narrazione del pensiero unico (come succede da noi). Non a caso si è cercato negli ultimi due anni di creare un’informazione certificata e di legittimare la censura delle notizie scomode. Arrivando persino a giustificare il ban da Twitter del Presidente americano.

E allora, tirando in ballo per l’ennesima volta il povero Orwell, Biden è corso ai ripari per drenare il calo di consensi della sua amministrazione, crollata ai minimi storici, per prevenire eventuali mosse di Musk volte a riportare la libertà di espressione su Twitter e per mettere un freno al dissenso.

Come? Con la costituzione del Disinformation Governance Board, struttura il cui scopo sarà quello di contrastare la disinformazione, che vede la luce in seno al Department of Homeland Security (DHS) statunitense (ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici). L’ufficio è stato istituito in fretta e furia in vista delle elezioni di MidTerm e si palesa come una specie di Miniver orwelliano.

Alla guida del Disinformation Governance Board ci sarà infatti la debunker Nina Jankowicz, che vanta una cattedra da assistente al Wilson Center con specializzazione proprio in tecniche di disinformazione e, soprattutto, un ruolo da advisor presso il ministero degli Esteri di Kiev in seno a un’iniziativa patrocinata dalla Fulbright-Clinton Public Policy Fellowship. Infine, ha supervisionato i programmi in Russia e Bielorussia presso il National Democratic Institute. Per non farsi mancare nulla, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person”. Insomma, è politicamente corretta e sostiene la causa “gender”. E possiamo dire che appare ideologicamente schierata e non lo nasconde nemmeno.

Peccato che, sul fronte della disinformazione, la Jankowicz abbia dimostrato di avere non pochi problemi a distinguere la genuinità o meno di un’informazione. Anzi, dati i precedenti, ha dimostrato di essere completamente inadeguata per questa mansione: ha bollato come fake news la storia del laptop di Hunter Biden (per lei era disinformazione del Cremlino e ovviamente c’era lo zampino di Trump) e ha invece accreditato come vero il falso dossier Steele. Un dossier che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex membro dell’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna ha ammesso in seguito, finanziato peraltro da Fusion Gps, dal Comitato nazionale democratico, dalla Campagna di Hillary Clinton e dal Washington Free Beacon. Inoltre, come anticipato, il suo ruolo richiederebbe un profilo super partes, non pare poter garantire.

È chiaro che alla debunker non interessa la ricerca della verità fine a se stessa, quanto semmai, in linea con l’operato del Miniver orwelliano, garantire l’infallibilità del suo datore di lavoro, in questo caso, non il Socing, ma un altro Partito, quello democratico.

Con il Disinformation Governance Board, l’America pare riscoprire la comodità della censura. Soprattutto in tempo di guerra. E la guerra contro la Russia, va vinta a tutti i costi, anche a colpi di censura. O di mistificazione. Un’arte che i debunkers e i “professionisti della disinformazione” conoscono molto bene di questi tempi…

La Commissione Giustizia della Camera ha adottato il testo base della legge che propone di perseguire la maternità surrogata come reato universale, anche se commesso all’estero. Come testo base è stato adottato quello di Giorgia Meloni e resta abbinata anche la pdl Mara Carfagna, come ha annunciato la relatrice Carolina Varchi (Fdi).

La legislazione italiana già vieta la pratica della maternità surrogata, reato definito nella legge 40 del 2006. Le pene sono la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Il testo base adottato dalla commissione aggiunge che “le pene si applicano anche se il fatto è commesso all’estero“.

Si tratta di un piccolo vasso nella battaglia per contrastare questa pratica barbarica. Il business dietro la maternità surrogata (miliardi di dollari l’anno) è infatti considerevole quanto drammatico e dovrebbe spingere l’opinione pubblica a riflettere sulle derive dell’attuale politica.

Dietro questo mercato globale si nascondono spesso tragedie umane, morti, abbandoni, condizioni di vita devastanti che spingono donne disperate ad accettare di affittare il proprio corpo per fare figli per i ricchi.

Più ci spostiamo nei Paesi poveri e in via di sviluppo e meno le donne guadagnano per la gestazione: sono tutte donne disperate, molte di loro hanno già diversi figli e lo fanno esclusivamente per denaro. Accettano il contratto legale che le costringe alla fine delle quaranta settimane, se il figlio è sano (altrimenti sono costrette ad abortire o a tenerselo senza soldi ovviamente), a cederlo ai genitori acquirenti.

In Oriente il servizio costa molto meno perché le madri surroganti non hanno una copertura sanitaria e rischiano persino la vita (ma questo è un problema collaterale per chi “compra” un bambino se si può risparmiare).

Nel subcontinente indiano, infatti, la situazione delle madri surroganti era talmente drammatica che la camera bassa indiana ha approvato nell’agosto 2019 il provvedimento che vieta in tutto il Paese la maternità surrogata a fini commerciali (leggi articolo). La legge autorizza la gestazione surrogata solo nel caso di scelta altruistica, tra persone della stessa famiglia, e solo per le coppie di indiani sposate da almeno 5 anni che non abbiano altri figli viventi.

Il provvedimento mette quindi fuorilegge le oltre 3000 cliniche private che dal 2001 prosperavano in tutto il Paese, con coppie in cerca di figli che arrivavano da tutto il mondo, e un giro d’affari di milioni di dollari. Non basta perché le cliniche hanno già iniziato negli ultimi mesi a spostarsi negli altri Paesi, ma è comunque un inizio.

Le donne firmano contratti tra le parti che non prevedono nessun supporto medico o economico in caso di malori post parto e vengono spinte a parti cesarei per non mettere a rischio la nascita dei bambini. In alcuni casi vengono sottoposte a trattamenti ormonali pericolosi per la salute, con l’obiettivo di aumentare la percentuale di successo del concepimento.

Si sfrutta cioè il corpo di una donna per ottenere il massimo profitto, proprio come nell’industria. Perché è esattamente questo: una fabbrica fordiana di bambini.

Specchio di una forma di schiavismo moderno, in cui il corpo della donna viene equiparato a un forno e il prodotto che ne deriva (il neonato) può essere ceduto come semplice merce. Addirittura rimandato indietro se non soddisfa l’acquirente, come diversi casi di cronaca attestano.

Oggi dobbiamo purtroppo constatare che ogni cosa è diventata merce, anche la vita. La tecnica, scollata dall’etica, è ormai asservita al mercato e anzi, tecnica e mercato sembrano ormai sulla buona strada di asservire l’uomo, diventando i padroni del nostro futuro. Siamo nel pieno dominio della tecnocrazia, asserviti alle multinazionali che ci plasmano a suon di slogan inducendoci a consumare oggetti, cibo con pesticidi, ormoni, vitamine sintetiche.

E dal cibo che ci nutre siamo passati ai figli, che si vogliono a tutti i costi anche quando la natura nega questo privilegio, che si desiderano come se fossero bambole, che si fabbricano su misura per capriccio, che si strappano alle madri surroganti che li hanno nutriti con il sangue, il cibo, le proprie emozioni per nove mesi.

Credo che sia in atto un ribaltamento del pensiero e uno svuotamento dei termini, una manipolazione della realtà e delle menti per introdurre pratiche ultra-capitalistiche moralmente inaccettabili: è proprio in questi frangenti che chi è contrario o preoccupato dovrebbe prendere posizione per denunciare la deriva morale, etica e sociale in atto.

Qua non c’entra essere di destra o di sinistra, importa recuperare una morale ed essere in pace con se stessi. Per non essere complici, per difendere la vita di quegli esseri che non hanno chiesto di essere “fabbricati” e tantomeno di essere “venduti” come merce: i bambini.

Per approfondimenti:

Si tratta di uno dei temi più delicati e controversi nel campo della controinformazione: fino a qualche anno fa l’argomento era accuratamente evitato dai media mainstream: chi ne parlava era liquidato come un visionario e un complottista.

Nulla di nuovo, insomma. L’idea era che i chip fossero una bufala (come tanti altri argomenti scomodi) e che non esistesse nessun piano segreto per impiantarli nella popolazione (o spingere i cittadini a farseli impiantare volontariamente) per controllarla. Chi provava a proporre un dibattito era liquidato come un visionario e perseguitato dai debunkers a cui oggi si vuole affidare il controllo dell’informazione.

Negli anni la tematica è tornata più volte alla ribalta, venendo sempre tacciata come l’emblema delle paranoie cospirazioniste. Eppure…

Oggi la BBC celebra il fenomeno dei microchip sottopelle con l’intervista a Patrick Peuman, addetto alla sicurezza olandese di 37 anni che si definisce un biohacker. L’intervista è diventata virale e ha fatto il giro del mondo.

Peuman ha 32 chip impiantati sotto pelle, per pagare avvicinando mano al Pos, aprire le porte e fare molto altro ancora.

“La tecnologia continua a evolversi, quindi continuo a collezionarne di più e non vorrei vivere senza di loro”, ha spiegato Peuman, sottolineando di non avere preoccupazioni né per la sicurezza né per la privacy perché “gli impianti contengono lo stesso tipo di tecnologia che le persone utilizzano quotidianamente. Dai telecomandi per aprire le porte, alle carte bancarie o quelle per il trasporto pubblico”.

La BBC riporta inoltre un sondaggio del 2021 condotto su 4.000 europei da cui si evince che il 51% degli intervistati prenderebbe in considerazione l’idea dell’installazione di un chip sotto pelle.

Il processo di “normalizzazione” del fenomeno del biohacking sta avvenendo negli ultimi anni in maniera costante e graduale, rispettando le tappe imposte dalla Finestra di Overton. Per biohacking s’intende l’insieme di sostanze e impianti sviluppati allo scopo di migliorare e potenziare le prestazioni dell’essere umano, per superarne i limiti fisici, come chi prova a hackare il ritmo del sonno o, passando ad approcci più estremi, usando la tecnologia e internet sottopelle –

Come anticipato, da delirio cospirazionista, il chipping è diventato quasi una moda e viene trattato dai media mainstream con un misto di fascino e curiosità, portando al graduale sdoganamento del fenomeno.

Già nel marzo 2016 sul sito www.repubblica.it la giornalista Ilaria Ravarino aveva firmato un articolo sul mercato dei chip dermali NFC (Near Field Communication) dopo essere stata a Cebit, la grande fiera della tecnologia di Hannover. Allo stand della microazienda di biohacking, Dangerous Things, si impiantavano chip dermali: si tratta, chiosava la giornalista, di piccoli oggetti di vetro poco più grandi di un chicco di riso, che vengono sparati da una siringa tra il pollice e l’indice della mano sinistra. Intervistato da Ravarino, il fondatore di Dangerous Things, Amal Graafstra, ha spiegato la funzione degli impianti: «Grazie ai chip mi sono liberato di chiavi, password e pin». Nell’articolo si mostrava inoltre il passaggio dai “vecchi” chip a tecnologia rfid a quelli NCF.

Ecco che oggi il mercato dei chip dermali è realtà e ne parlano sempre più spesso − il più delle volte con entusiasmo − anche i media mainstream, inculcando nell’opinione pubblica l’idea che tutto ciò sia “utile”, comodo e di tendenza. Addirittura, “fashion”. La gente fa così la fila agli stand della fiera del tech per farsi impiantare e poter così eliminare schede, chiavi, password. Insomma, ci si fa microchippare per “comodità”, senza minimamente pensare alle conseguenze “sociali” del gesto.

Un’altra tendenza che si è registrata negli ultimi anni è quella che vede le aziende incentivare il chippaggio da parte dei propri dipendenti. I manager della statunitense Three Square Market (32M) hanno proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda: password, codici di accesso, autorizzazioni a sbloccare serrature, ecc. La 32M è una startup che fornisce a uffici e negozi macchinette e software per la pausa pranzo e ha stretto un accordo con la svedese BioHax International, produttrice in sensori biometrici.

«I microchip sono il futuro nel campo dei pagamenti – ha spiegato Tony Danna, vice presidente della società – e il nostro obiettivo finale è eliminare il portafoglio».

Sul sito dell’azienda, la Three Square Market assicura che i chip non contengono un GPS e che quindi non consentono di tracciare i movimenti degli impiegati (e di controllarli). Il chip contiene solo le informazioni che i dipendenti scelgono di associargli e sono criptati.

L’iniziativa ha ovviamente destato clamore e non è isolata perché sono diverse le aziende in tutto il mondo che stanno adottando questo stratagemma: una tra tutte la svedese Epicenter, impegnata nel settore high tech: 150 dipendenti dei suoi dipendenti hanno deciso volontariamente di sottoporsi al mini intervento di chippaggio.

Da quel momento in poi, il lavoratore che si è sottoposto all’intervento può utilizzare la propria mano come badge, per aprire le porte o per interagire con le macchine dell’azienda, o anche per effettuare pagamenti. Chi non voglia sottoporsi all’iniezione non subisce alcuna ripercussione sulla carriera: il chip però è diventato talmente popolare che chi lavora nella sede di Epicenter ha preso l’abitudine di festeggiare con un party ogni nuovo volontario che scelga di impiantarsi il chip nella mano.

La tematica è delicata perché, come anticipavo, è sempre stata liquidata come una paranoia cospirazionista: i chip non esistono e nessuno se li impianta. Come succede spesso nel campo della controinformazione, le notizie che vengono liquidate come “fake news” si confermano poi come “vere” dopo qualche anno, dando ragione a quei ricercatori che nel frattempo sono stati screditati come dei pazzi visionari. La tematica dei microchip rientra a pieno titolo tra queste e la graduale diffusione dei chip non sta avvenendo in modo coercitivo (l’obbligo spingerebbe la popolazione a ribellarsi) ma incentivando le persone a farseli impiantare in modo volontario.

Si vuole abituare la popolazione ad abbracciare con entusiasmo queste nuove modalità “tecnologiche”: l’obiettivo è stringere sempre più le maglie del controllo e della sorveglianza tecnologica, dall’altra legittimare l’abolizione del contante.

È evidente che per controllare la popolazione (e limitarne la privacy) si sta da un lato rendendo “alla moda” il chip sottocutaneo, spingendo così la popolazione a “correre” a farselo impiantare volontariamente per comodità, dall’altra si sta strumentalizzando la questione delle pandemie e del registro digitale per spingere persino i governi a sottoscrivere dei programmi che possano in futuro prevedere il ricorso a tali dispositivi.

Un esempio è il progetto ID2020, di cui già parlavo in Coronavirus. Il nemico invisibile, che si pone infatti l’obiettivo di portare all’identificazione digitale tramite l’inserimento di un microchip sottopelle che conterrebbe le informazioni personali dei cittadini ma allo stesso tempo consentirebbe anche di somministrare i vaccini sotto forma digitale. Al di là delle possibili speculazioni, è chiaro che Big Pharma stia collaborando con l’industria tecnologica per conciliare l’immunizzazione con la biometria digitale, e che uno degli scopi di questo progetto sia proprio quello di impiantare microchip sottopelle.

Se fino a qualche anno fa si tendeva a derubricare la tematica come una fantasia complottista, oggi si annoverano persone che si fanno impiantare i chip sottopelle al posto del telecomando della propria auto o per fare a meno di pin, password e contanti. In un futuro non troppo lontano, forse, i chip verranno utilizzati per l’identità digitale dei cittadini.

L’imposizione o le modalità segrete hanno infatti scarso successo e basta “plasmare” l’opinione pubblica per gradi facendo conoscere i benefici, in questo caso dei chip, a scapito dei risvolti ambigui o addirittura pericolosi di essi. Non ci sarebbe bisogno di costringere nessuno (o quasi) e di imporre l’obbligo dell’impianto. Ci sarebbe la fila di persone pronte a farselo impiantare.

Possiamo immaginare come il controllo già capillare e pervasivo nella nostra società (pensiamo a telecamere, satelliti e ai cellulari che permettono di rintracciare chiunque ovunque si trovi) sarebbe completo in caso di chipping di tutta la popolazione: ognuno di noi sarebbe un “uomo di vetro”, trasparente, sotto costante sorveglianza. Lo sguardo elettronico del Governo ci seguirebbe in ogni attimo della nostra esistenza.


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Nei giorni scorsi si è scoperto che tra il 29 e il 30 marzo, Wikipedia Italia ha modificato la voce della Strage di Odessa (l’evento risale al 2 maggio 2014 ed è strettamente collegato all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina), trasformando il massacro dei russi in un “rogo” e lasciando intendere che si fosse trattato di un incidente, una fatalità.

Fino una settimana fa Wikipedia forniva una precisa versione dei fatti: il rogo di Odessa veniva definito come un massacro presso la Casa dei sindacati in Ucraina a opera di estremisti di destra, neonazisti e nazionalisti filoccidentali ucraini ai danni dei manifestanti sostenitori del precedente governo filo russo.

Prima, la voce era “strage di Odessa” e veniva definita come

«un massacro, avvenuto il 2 maggio 2014 ad Odessa, presso la Casa dei Sindacati, in Ucraina, ad opera di estremisti di destra, neonazisti e nazionalisti filo occidentali ucraini ai danni dei manifestanti sostenitori del precedente governo filo russo».

Successivamente, il rogo di Odessa è diventato un semplice “incendio” verificatosi presso la Casa dei sindacati a seguito di violenti scontri armati tra le fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori del nuovo corso politico ucraino che ha portato alla morte di 42 persone.

Dopo diverse discussioni tra gli amministratori – una cerchia di rollbacker, di utenti convalidati e autoverificati – in seguito alle polemiche suscitate, la pagina è stata modificata nuovamente il 5 aprile 2022 alle 23:50, la voce da “rogo” è diventata “incendio” e la spiegazione interna più chiara e vicina agli eventi del 2014.

Ora leggiamo: «L’Incendio della Casa dei sindacati di Odessa si è verificato il 2 maggio 2014 a Odessa, in Ucraina, a seguito di violenti scontri armati fra fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori del nuovo corso politico ucraino determinatosi nel paese dopo le proteste di Euromaidan. L’incendio ha causato la morte di 42 persone».

La voce è stata ribattezzata “Incendio della Casa dei sindacati di Odessa”.

Nello specchietto riassuntivo dell’evento a destra, dove prima si spiegava che si era trattato di un “omicidio di massa”, ora viene descritto come un «Incendio durante scontri fra fazioni politiche opposte». Tra le motivazioni della strage, leggiamo sotto sempre nello specchietto riassuntivo, non troviamo più il “sentimento antirusso” ma la “crisi russo-ucraina”.

Questo gravissimo episodio è l’ennesima riprova di come Wikipedia funga da stampella delle élite globaliste e della narrazione del pensiero unico.

Che Wikipedia fosse un progetto volto ad avere il controllo assoluto sulle fonti e sull’informazione e a disciplinare il dissenso era palese da tempo. Qualche mese fa è arrivata la conferma addirittura dal suo creatore, Larry Sanger che ha dedicato parole durissime per attaccare la direzione intrapresa negli ultimi anni dal suo progetto.

«Wikipedia ha fatto un vero sforzo per rimanere neutrale, direi, per i suoi primi cinque anni circa. E poi… è iniziata una lunga e lenta scivolata in quella che definirei una propaganda di sinistra».

Sanger ha dichiarato ad American Thought Leaders di EpochTV che l’enciclopedia online, che ha compiuto 20 anni, gradualmente è finita per abbracciare la narrativa dei “mezzi di informazione”, arrivando così a fare becera propaganda di sinistra, oscurando e boicottando le fonti alternative al pensiero unico. Sanger ha infatti sottolineato che il progetto è finito per abdicare all’idea di neutralità che è invece fondamentale per offrire una informazione corretta e non orientare il giudizio di coloro che usufruiscono del servizio:

«L’idea alla base della neutralità è quella di consentire alle persone di prendere una decisione. E questa è una parte importante della mia idea di come dovrebbe essere un lavoro di riferimento affidabile e utile».

Sanger ha criticato aspramente la sua creatura suggerendo che questa non solo stia avallando l’egemonia culturale di sinistra, ma che abbia intrapreso un’opera di alterazione e manomissione delle fonti, per esempio denigrando come “teorici della cospirazione” esponenti di destra e più in generale coloro che non seguono la narrativa mainstream:

«Chiunque sia di destra, o addirittura in controtendenza, si trova con un articolo su Wikipedia che travisa grossolanamente i propri risultati, spesso tralascia parti importanti del suo lavoro e distorce le sue motivazioni, li dipinge come “teorici della cospirazione” o di estrema destra, o qualsiasi altra cosa, quando loro, i loro amici e le persone che li conoscono bene non li descriverebbero mai in quel modo».

In precedenza, Sanger aveva notato che Wikipedia aveva vietato l’utilizzo di alcune fonti scomode, come i servizi politici di Fox News, del New York Post e del Daily Mail.

Le accuse di Sanger non sono certo isolate, ma risuonano come un macigno, provenendo dal cofondatore del progetto. Durante la pandemia, per esempio, molti avevano notato come le voci di diversi autorevoli esponenti scientifici (come Luc Montagnier o Giulio Tarro) oppure di intellettuali, giornalisti indipendenti e filosofi, fossero state modificate in modo da farli apparire come “complottisti”. Chiunque avesse osato criticare il catechismo pandemico o mettere in dubbio i dispostivi adottati per gestire la crisi si è visto modificare la voce sull’enciclopedia on line con l’aggiunta di sezioni relative alle “teorie del complotto”.

La modalità di alterazione delle voci dell’enciclopia faceva venire in mente il lavoro capillare e certosino dei colleghi di Winston Smith. Se 1984 fosse ambientato ai giorni nostri, è probabile che Wikipedia sarebbe descritta proprio come una sezione del Miniver: nella distopia orwelliana, il Ministero della Verità si occupa della promozione di tutto il materiale relativo all’editoria, letteratura e informazione, in un capillare lavoro di riscrizione delle fonti. Il Miniver, cioè, si occupa di falsificare l’informazione e la propaganda, per rendere il materiale diffuso conforme alle direttive e all’ideologia del Socing, garantendo così l’infallibilità del regime. Il Grande Fratello, infatti, sottomette le menti dei cittadini tramite il “controllo della realtà”, e niente deve sfuggire alle maglie del suo dominio onnipervasivo.

Già dieci anni prima della pubblicazione di 1984, il romanziere e saggista HG Wells aveva auspicato la creazione di una Enciclopedia Mondiale Permanente in World Brain. Il progetto era il coronamento di quanto aveva scritto dieci anni prima. Nel 1928 aveva dato alle stampe The Open Conspiracy in cui descriveva il proprio ideale di un mondo globale unificato sotto l’egemonia anglosassone e ispirato agli ideali socioeconomici della Fabian Society e del fabianesimo. Nel libro Wells esprimeva la necessità di creare una società sopranazionale (che oggi potremmo definire “globalizzata”), un’impresa che prevedeva il reclutamento degli individui e l’allestimento delle istituzioni che occorrono per costituire il “direttorato” mondiale di “un nuovo ordine mondiale”.

Nel saggio-romanzo del 1905 A Modern Utopia era stato altrettanto chiaro: «Si arriverà, insomma, all’attuazione di un vero e proprio Stato Mondiale». Qua il sogno wellsiano si esplicitava in uno Stato mondiale pacificato e tecnologicamente avanzato: l’utopia rappresentava per l’autore il futuro e questo, a sua volta, non poteva che risiedere nella scienza in quanto perseguimento del Bene e della Verità.

I sogni avanzati da HG Wells e dalla dinastia Huxley sono convogliati nell’attuale ideologia mondialista che ha ben compreso che per mantenere salda la propria egemonia sulla società deve controllare la realtà, in modo che i cittadini acquisiscano e introiettino come “verità” le menzogne propinate dai falsificatori perché, citando ancora Orwell, «se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera». E soprattutto, viene acquisita e introiettata come se fosse sempre stata vera.

Il “controllo della realtà” e la falsificazione costante del presente e del passato servono a soggiogare il popolo, tenendolo imprigionato in una forma di eterno presente: privo di memoria storica e senza più la capacità di usare la coscienza critica, l’uomo comune che ormai, per comodità, accede a Wikipedia come se fosse una garanzia di verità e infallibilità, è costretto a crollare sotto il peso della dissonanza cognitiva (oggi una voce dice una cosa e domani può sconfessarsi e dire l’opposto), allineandosi così all’ortodossia del Sistema.

ENRICA PERUCCHIETTI

Non si sentiva il nome di Soros da qualche settimana. Ed eccolo rispuntare, come nel gioco della talpa, insieme a Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn, in prima linea per combattere le fake news. O meglio, per sostenere la narrativa mainstream e contrastare l’informazione alternativa, ormai derubricata a mera “disinformazione”.

Dopo essersi infatti concentrato sulla condanna di “informazioni false e fuorvianti” che a suo dire proliferano esclusivamente online, Soros ha infatti deciso di investire in una nuova iniziativa per combattere le fake news. Ne parla il sito Axios, raccontando la nascita di Good Information, nuova società che ha come obiettivo quello di sostenere le società dei media nella lotta alla disinformazione.

Good Information mira a finanziare e sostenere realtà che fanno fact checking, così come le redazioni locali. Oltre a Hoffman e Soros, nel progetto sono coinvolti anche Ken e Jen Duda e il fondo Incite Ventures.

Il gruppo sarà guidato da Tara McGowan, ex stratega democratica che in precedenza gestiva un’organizzazione no-profit progressista chiamata ACRONYM e nelle scorse elezioni ha organizzato una campagna contro Donald Trump. Si parla di 100 milioni di dollari spesi per screditare Donald Trump. Inutile ricordare che Soros ha partecipato attivamente alle ultime campagne presidenziali, inondando di soldi i candidati democratici: solo nel 2020 ha investito quasi 50 milioni di dollari per sostenere Joe Biden, soldi fatti arrivare attraverso la rete Democracy PAC.

E già a questo punto potrebbe sorgere il vago sospetto che l’obiettività politica della piattaforma sia solo un miraggio…

Good Information, Inc. è stato lanciato martedì come “un incubatore civico impegnato a investire in soluzioni immediate che contrastano la disinformazione e aumentano il flusso di buone informazioni online” e investirà in nuove attività e soluzioni che affrontano la crisi della disinformazione. Ossia, verranno privilegiate quelle realtà che sostengono l’informazione mainstream. E’ la stessa società a chiarirlo, suggerendo la necessità della censura, attraverso una “regolamentazione delle piattaforme dei social media“.

Ormai a livello globale, la lotta contro la lotta contro le fake news è un grimaldello per scardinare la libertà di informazione ed espressione.

Da un lato, infatti, stiamo assistendo al tentativo di creare una informazione certificata, le notizie col “bollino” di coloro che si arrogano il diritto e l’autorevolezza di essere gli unici depositari della verità, sostenendo il controllo e la revisione dei contenuti che non collimano con il catechismo del pensiero unico.

A ciò fa seguito una repressione censoria, incentivata dal Potere e acclamata dai media tradizionali, in evidente crisi di seguito oltre che di vocazione, che si è consolidata come una moderna forma di Inquisizione digitale con un nutrito apparato di debunkers e fact-checkers che è finito per fare da stampella agli algoritmi che revisionano ed epurano i contenuti scomodi sui social network.

Plasmare, manipolare e uniformare l’opinione pubblica serve non solo a imporre un conformismo delle idee e a controllare ed etero-dirigere le masse. Un modo per creare un essere umano “intercambiabile” e “unidimensionale”, come spiega Michel Onfray in Teoria della dittatura, «un uomo cioè che pensa come tutti gli altri, agisce come tutti gli altri, gode come tutti gli altri e riflette come tutti gli altri». Un clone tra i cloni che sia talmente svuotato e spersonalizzato da essere stato riempito dalla propaganda e dalla disinformazione del regime e che non prenda in considerazione non solo di non dissentire, ma nemmeno di macchiarsi di “psicoreato”.

Il conformismo e l’omologazione degli ultimi anni sono stati incentivati dagli stessi media che, durante la pandemia, hanno perso l’occasione di accertare i fatti, inducendo inizialmente una virtualità dell’informazione, per poi inoculare dosi quotidiane di paura nelle masse. I media sono di fatto diventati indistinguibili dalla propaganda e, con una forma di criminologia sanitaria, hanno terrorizzato l’opinione pubblica, incentivato la delazione, indotto un senso di disperazione, solitudine, vuoto e spaesamento nei cittadini, colpevolizzato coloro che pensano in modo alternativo (ricorrendo a una serie di fallacie e alla patologizzazione del dissenso) e dispensato tonnellate di “moralina” per educare le masse.

Ora si aggiunge questa piattaforma anti-bufale con l’evidente obiettivo di strumentalizzare la lotta alla disinformazione come pretesto per silenziare le opinioni dissidenti e critiche nei confronti del Sistema e del pensiero unico.


Canali YouTube cancellati o demonetizzati, profili social, siti e blog chiusi, video oscurati, persone a cui viene impedito di commentare o pubblicare.

La furia censoria iniziata nel 2020 con l’oscuramento dei contenuti non allineati da parte dei grandi colossi della rete è diventata in questi mesi conclamata. Persino sfacciata, come se dovesse fungere da un lato come grimaldello contro coloro che osano dissentire o esprimere ancora il proprio pensiero, dall’altra come gesto intimidatorio per spingere le masse a una forma di autocensura.

Complice la pandemia che viene strumentalizzata dal potere con la creazione di task force sulle fake news fino alla proposta di introduzione di disegni di legge contro la disinformazione e di regolamentazione comunitaria della rete, i casi di censura si sono moltiplicati negli ultimi mesi, colpendo sui social network, su YouTube, persino sulle piattaforme che ospitano dei blog e rendendo evidente come il potere si avvalga della censura per inibire il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e persino di fare informazione. Un’apparente assurdità, in quanto aziende private si arrogano il diritto di limitare la libertà di espressione, violando quelli che sono dei diritti costituzionali: le piattaforme social, sebbene appartengano a multinazionali straniere, sono diventate con il nuovo millennio un’agorà, un luogo pubblico di dibattito in cui si forma e si confronta l’opinione pubblica e la discussione dei cittadini.

Stiamo assistendo a una caccia al dissidente, che spesso viene istituzionalizzata in commissioni, osservatori, task force. E che diventa minacciosa se si considerano questi passi un tentativo di introdurre un vero e proprio reato d’opinione, a livello sia nazionale sia europeo, volto a silenziare le idee divergenti, non allineate al catechismo del pensiero unico.

A questo tema è dedicato il libro Censura. Come reagire all’Inquisizione digitale, scritto insieme a Claudio Messora e al senatore Stefano Lucidi (qua il link per l’acquisto del libro).

Il saggio è incentrato proprio alla minaccia liberticida in corso: la censura sta infatti erodendo progressivamente il pluralismo, svuotando il dibattito politico, etico e sociale, legittimando il silenziamento delle voci dissenzienti. Si stanno abituando i cittadini ad accettare gradualmente provvedimenti che fino a qualche anno fa sarebbero stati impensabili e avrebbero suscitato reazioni forti e sollevazioni popolari.

Ancora prima che entrassimo nella spirale della pandemia, nel 2018 con la prima edizione di Fake news già avevo immaginato e previsto uno scenario simile, che si è concretizzato di recente nell’apatia di molti, terrorizzati dalla pandemia e distratti dai dispositivi governativi basati sul biopotere e la biosicurezza.

In questi mesi, per sostenere e legittimare di fronte all’opinione pubblica la censura, taluni sono arrivati a parlare di “censura costruttiva”, spiegando come in una situazione di emergenza sanitaria sia “etico” e doveroso oscurare i contenuti “pericolosi” per salvaguardare la collettività dal rischio di disinformazione.

Molti si sono fatti convincere da questo argomento, arrivando a sostenere che sia lecito silenziare le voci controcorrente che dissentono e mettono a rischio la liturgia del pensiero unico, discostandosi per esempio dai “dati ufficiali” e dalla scienza.

Scienza, però, che viene piegata al biopotere e che insieme ai suoi dogmi è finita per assumere un’aura di religione con i suoi feticci e i suoi culti superstiziosi, divenendo l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere: un culto dogmatico, infallibile, inviolabile, manicheo.

La paura di perdere la vita, citando il filosofo Giorgio Agamben, sta portando alla costituzione di un dispotismo tecnologico-sanitario basato su una sorta di religione della salute: «Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare».

In una società che contesta qualsiasi tema e mette sotto esame qualsiasi autorità, da quelle politiche a quelle religiose, le uniche autorità che restano inattaccabili sono quelle identificate come le ancelle della “scienza”, le cui voci si diffondono e dispiegano attraverso i media di massa, entrando quotidianamente nelle nostre case tramite televisione, radio e quotidiani, con il chiaro intento di imporci cosa pensare in base al nuovo catechismo scientocratico.

Si è così consolidata gradualmente la scientocrazia con i suoi pilastri e i suoi diktat, con la sua furia censoria e la volontà di piegare e soggiogare chiunque metta in discussione le sue verità di fede ed eserciti ancora il pensiero critico.

Soprattutto, con la sua psicopolizia assetata di censura che si è strutturata come una moderna forma di Inquisizione digitale.

In questo scenario, i social network e la loro censura privata rappresentano oggi una delle più potenti armi a supporto del discorso politicamente corretto e contro la diffusione di qualunque idea alternativa a quelle che quel discorso ammette.

YouTube, Facebook, Twitter, Google stanno diventando sempre più potenti, trasformando spesso le loro azioni in atti autoritari nei confronti degli utenti, con conseguenze che pesano sul dibattito di una società democratica, andando a ledere lo stesso diritto di informazione.

Per approfondimenti:

CENSURA

Come reagire all’Inquisizione Digitale


Quello che si delinea dinanzi ai nostri occhi è uno scenario distopico che ricorda da vicino quanto immaginato da George Orwell, nel lontano 1948, in 1984.

Il Miniamor

Sparsi per Londra, svettano per aspetto e dimensioni, tra i tetti degli altri edifici, le sedi dei quattro Ministeri che compongono l’intero apparato governativo del Partito. Sono il Ministero della Verità (Miniver), il Ministero della Pace (Minipax), il Ministero dell’Amore (Miniamor) e il Ministero dell’Abbondanza (Miniabb).

Tra tutti, il palazzo del Miniamor è quello che incute un vero e proprio terrore: privo di finestre e circondato da filo spinato e nidi di mitragliatrici, è pattugliato giorno e notte da guardie in divisa nera munite di lunghi manganelli.

La funzione del Ministero dell’Amore è quella di «mantenere la legge e l’ordine pubblico», ossia controllare i membri del Partito e convertire gli eventuali dissidenti alla sua ideologia. Esso è dotato della famigerata psicopolizia, che interviene in ogni situazione sospetta di eterodossia e di deviazionismo (lo psicoreato): non passa giorno che gli psicopoliziotti non smascherino spie e sabotatori.

È compito del Miniamor anche plasmare le menti dei membri e dei cittadini in tutti i modi possibili per garantire, insieme alla solerte opera del Miniver che altera l’informazione e falsifica la storia, l’infallibilità del regime.

Negli ultimi mesi si è parlato molto di 1984, equiparando il capolavoro distopico orwelliano alla realtà che stiamo vivendo. Per esempio, la costituzione di task force sulle fake news è stata intesa come l’anticamera del Ministero della Verità orwelliano.

Non basta a quanto pare, però, la furia censoria che è divenuta conclamata nell’ultimo anno e mezzo con l’oscuramento di video e contenuti non allineati al Sistema.

Oggi si aggiunge un tassello in più, perché stiamo assistendo a un passo successivo, la creazione di un Ministero dell’Amore con la sua psicopolizia.

Ce ne dà conto Giornalettismo che racconta del nuovo progetto firmato Paolo Tuttotroppo con la collaborazione di Claudio Michelizza e di ParadoxOrama per portare all’attenzione della polizia i reati di chi fa disinformazione.

Leggiamo nell’articolo:

«Se l’iniziativa avrà successo, quindi, l’avvocato e i debunker hanno già in mente una serie di personaggi tra quelli che hanno maggiore visibilità da segnalare e rendere protagonisti di dossier che verranno inviati direttamente alle procure».

I dossier prodotti dovrebbero quindi essere frutto di “indagini” e arrivare sulle scrivanie dei poliziotti che dovranno “solamente leggerli”. I primi malcapitati su cui si è posato l’occhio del Grande Fratello sarebbero i coniugi Gatti-Montanari.

Dalla censura alla psicopolizia

La censura sta erodendo progressivamente il pluralismo, svuotando il dibattito politico, etico e sociale, legittimando il silenziamento delle voci dissenzienti. Si stanno abituando i cittadini ad accettare gradualmente provvedimenti che fino a qualche anno fa sarebbero stati impensabili e avrebbero suscitato reazioni forti e sollevazioni popolari.

Ancora prima che entrassimo nella spirale della pandemia, nel 2018 con la prima edizione di Fake news già avevo immaginato e previsto uno scenario simile, che si è concretizzato di recente nell’apatia di molti, terrorizzati dalla pandemia e distratti dai dispositivi governativi basati sul biopotere e la biosicurezza.

In questi mesi, taluni sono arrivati a parlare di “censura costruttiva”, spiegando come in una situazione di emergenza sanitaria sia “etico” e doveroso oscurare i contenuti “pericolosi” per salvaguardare la collettività dal rischio di disinformazione.

Molti si sono fatti convincere da questo argomento, arrivando a sostenere che sia lecito silenziare le voci controcorrente che dissentono e mettono a rischio la liturgia del pensiero unico, discostandosi per esempio dai “dati ufficiali” e dalla scienza. Scienza, però, che viene piegata al biopotere e che insieme ai suoi dogmi è finita per assumere un’aura di religione con i suoi feticci e i suoi culti superstiziosi, divenendo l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere: un culto dogmatico, infallibile, inviolabile, manicheo. Una scientocrazia.

Non ci si rende conto che le limitazioni alle nostre libertà fondamentali, quali il diritto di informazione e di espressione, che vengono adottate oggi in uno stato di eccezione, non verranno sospese una volta che l’emergenza sarà finita. Si tratta semmai di un processo strisciante, subdolo, che sta avvenendo per gradi, da anni, in modo che la gente non si renda conto di essere sottoposta a manipolazione.

Ora si sta andando ancora oltre la censura, in un clima che riecheggia la Stasi e il Miniamor orwelliano.

Improvvisati inquisitori che con altrettanto improvvisati delatori creano dossier su coloro che osano esprimere un pensiero critico o esporre le proprie ricerche (siano esse corrette o no fa parte del pluralismo e della democrazia il diritto di esprimerle) nella speranza che intervenga la psicopolizia a impedire a costoro di esprimersi liberamente.

Come ripeto da anni,

la battaglia contro le fake news, infatti, è una moderna caccia alle streghe che ha un duplice scopo: da un lato portare alla creazione di una informazione certificata, dall’altro ottenere la legittimazione morale della censura. Perché il peccato che il potere non può tollerare è che i cittadini osino pensare in maniera critica, diffidando dal catechismo del pensiero unico e che in questo modo, smettano di farsi manipolare controllare.

Per approfondimenti:

Enrica Perucchietti, Fake news, Arianna Editrice.

Guai per gli scacchisti su YouTube: “bianco” e “nero” sono parole proibite.

Il 28 giugno scorso YouTube aveva bloccato l’account di Antonio Radic, meglio noto come Agadmator, per contenuti offensivi.

Il blocco della scorsa estate è durato solo 24 ore ma YouTube non ha fornito spiegazioni in merito all’oscuramento dell’account.

Il problema è che Radic è lo scacchista più seguito al mondo: il suo account conta ben un milione di iscritti. Nei suoi video di commento alle partite, vengono citati ovviamente due termini che ormai sono diventati tabù: “bianco” e “nero”. Continua a leggere

Siamo nel 2022. La Terra è devastata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione. La vegetazione non esiste quasi più e il clima è torrido. New York è un formicaio di fatiscenti palazzi di cemento in cui sono pressati 40 milioni di abitanti. La situazione è drammatica: la società è in completa rovina. La disoccupazione è dilagante, il crimine in costante aumento.

La diseguaglianza sociale è drammatica: la società è divisa tra ricchi e poveri. Acqua e cibo sono infatti razionati. I poveri devono nutrirsi del Soylent verde (la parola è la contrazione tra “soy beans” e “lentis”: semi di soia e lenticchie), mentre i ricchi possono ancora assaporare i sempre più introvabili cibi genuini. La carne, più unica che rara, è venduta a prezzi proibitivi.

Il cibo è infatti il problema maggiore dell’umanità. L’unica risorsa rimasta solo le gallette nutritive del Soylent verde. La pubblicità afferma che il plancton è la materia prima del Soylent verde, l’ultimo prodotto della ditta Soylent.

Il protagonista è un poliziotto, Thorn, che scoprirà a sue spese che quelle gallette che dovrebbero servire per sfamare tutta la popolazione, sono in realtà composte con i cadaveri umani…   

La Soylent esaurita la scorta di plancton confeziona infatti il cibo con la carne dei cadaveri.

È la trama del film distopico di Richard Fleischer 2022: i sopravvissuti, interpretato da Charlton Heston. Uscito nelle sale nel 1973, è tratto liberamente dal romanzo distopico di Harry Harrison, Largo! Largo! del 1966 (il romanzo si ambienta nel 1999).

Ebbene proprio come nel romanzo di Harrison, Bill Gates ha deciso che nel futuro i cittadini dei Paesi ricchi dovrebbero mangiare carne sintetica per combattere il riscaldamento climatico:

«I Paesi ricchi dovrebbero mangiare carne sintetica al 100 per cento. Ci si può abituare alla differenza di gusto, senza contare che, nel tempo, verrà resa ancora più appetitosa».

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I novelli inquisitori fiutano l’odore dell’eresia con lo stesso entusiasmo con cui un segugio fiuta i tartufi. Chiunque osi dissentire dal pensiero unico è un empio che va perseguitato, punito e bandito. Persino oscurato in una forma moderna di damnatio memoriae. Nel diritto romano la damnatio memoriae indicava infatti la cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una persona, come se essa non fosse mai esistita.

Qualcosa di simile accade oggi, in uno scenario orwelliano, in cui la moderna psicopolizia si occupa di perseguitare e oscurare chiunque non si macchi di “psicoreato”, con l’evidente obiettivo di cancellarne la voce e la memoria.

Le deviazioni dall’ortodossia vengono represse e punite, incentivando metodi sempre nuovi da far penetrare gradualmente nell’opinione pubblica come una panacea sociale. Chi non accetta i diktat dell’Ortodossia e non si sottomette alla liturgia del pensiero unico, finisce per essere etichettato come un pericoloso psicocriminale che va censurato ed espulso dalla comunità (per ora social) in modo che con la sua condotta “critica” non rischi di contagiare il resto della popolazione.

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Una indagine condotta pochi giorni dopo l’11 settembre, di cui oggi ricorre l’anniversario, aveva rilevato che nove americani su dieci dichiaravano di soffrire di sintomi da stress post-traumatico.

Il terrore generalizzato, indotto dagli attentati, produsse un’opportunità per il governo Bush che ne approfittò su diversi fronti: da un lato legittimare la Guerra al Terrore, cioè l’ennesima guerra “preventiva” che in un altro momento non sarebbe stata accettata dall’opinione pubblica, grazie a questo assicurarsi un’impresa volta al profitto e alla privatizzazione del governo  (il “capitalismo dei disastri”), dall’altra restringere la privacy introducendo il Patriot Act.

Come mostrava Naomi Klein in Shock Economy, quando un Paese è impantanato in una crisi economica e sociale, esistono squadre di “tecnici” (io li definirei sciacalli) che impongono le loro dottrine economiche sulla base di promesse sempre disattese.

Volutamente disattese.

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La dittatura del pensiero unico si riversa nel boicottaggio mediatico e nella persecuzione on line di alcuni pensatori qualora risultino scomodi.

Di certe tematiche non si deve parlare per non urtare alcune minoranze che sembrano aver preso in ostaggio il pensiero critico.

Chi si permette di farlo dovrebbe ritagliarsi una fascetta di tessuto, ricamarci l’iniziale di “E” di eretico, e cucirsela a bella vista sui vestiti. In fondo anche la stregoneria quando venne perseguitata era assimilata all’eresia.

 

Anche essere politicamente scorretti è una forma di eresia: significa rifiutarsi di conformarsi al pensiero unico, dissentire dall’Ortodossia di Stato, forgiarsi una propria opinione alternativa alla maggioranza e difenderla a rischio di, citando Ernst Jünger, “darsi al bosco”.

 

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“Contiamo di realizzare questi dispositivi entro un anno. In pratica, si effettua un foro nel cranio, che lascia solo una piccola cicatrice, e si inserisce il dispositivo. Questa tecnologia potrebbe evolversi in una sorta di interfaccia cerebrale completa, che consentirebbe la ‘simbiosi’ tra uomo e AI. Non abbiamo ancora iniziato ad effettuare i test sugli umani, ma non credo che aspetteremo molto. Potremmo essere in grado di impiantare un collegamento neurale in una persona in meno di un anno”.

 

Così l’imprenditore visionario Elon Musk, già CEO di Tesla e SpaceX, è tornato a parlare della sua start up Neuralink[1], fondata nel luglio 2016[2] , e della tecnologia per ibridare l’uomo con le macchine, durante un’intervista fatta con il commentatore Joe Rogan.

L’interfaccia uomo-computer è il punto di svolta della ricerca che il magnate americano ha avviato nel 2016.

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Il pensiero unico su cui si deve assestare l’opinione pubblica è una forma di “politicamente corretto”, il più possibile allineato a quelli che sono gli obiettivi del potere.

Il totalitarismo democratico ha i suoi cani da guardia, i suoi psicopoliziotti, pronti a riportare all’ovile chiunque dissenta od osi manifestare pubblicamente dei dubbi.

Il dubbio non è consentito ed è pericoloso perché può “contagiare” il resto della popolazione, portando a un calo di consenso.

Il paradosso (potremmo parlare di vero e proprio bipensiero orwelliano) è che i mastini del pensiero unico, gli stessi che abbracciano la creazione di task force e che vorrebbero introdurre disegni di legge per censurare il web da fake news e teorie del complotto, sono i primi a perseguitare in modo violento, volgare e sguaiato i propri avversari, ricorrendo anche a falsità, strategie retoriche e a diffamazioni.
Oggi, purtroppo, il confronto è stato abolito per lasciare spazio al cyber bullismo. Si critica giustamente il bullismo quando nel mirino finiscono gli adolescenti o le minoranze, ma poi ipocritamente lo si usa come il braccio armato del potere per “mettere in riga” chi traligna dalla retta via.

Quando non si sa come attaccare il contenuto di certe ricerche si passa al bullismo vero e proprio con attacchi personali tanto vili quanto violenti o all’inserimento dei nomi dei ricercatori in liste di proscrizione.

Denigrando e perseguitando chi non si allinea al pensiero unico si spera di disincentivarlo dal continuare le proprie ricerche.


Sono metodi di bassa lega usati da tempo e che con l’avvento della tecnologia e dei social funzionano in modo più capillare.

Mettendo pubblicamente alla gogna i ricercatori “scomodi” si introduce di fatto uno psicoreato, un reato d’opinione di orwelliana memoria.

Si crea cioè un frame, una cornice negativa, con cui stigmatizzare un ricercatore e le sue teorie in modo che il biasimo collettivo lo preceda e lo segni inesorabilmente. Si diffonderanno articoli, commenti su forum per confermarne il frame e si modificheranno persino le voci su wikipedia per avvalorare la veridicità delle accuse anche qualora siano assurde.


Il bullismo del potere tramite i suoi cybermastini si sta scatenando in queste settimane con il ricorso al noto argumentum ad hominem: si tratta di una fallacia o tecnica fuorviante che serve per screditare un argomento scomodo spostando l’attenzione dall’argomento della polemica, contestando non l’affermazione in oggetto, ma l’interlocutore stesso.


Invece di confutare l’argomentazione che si vuole negare, si attacca così la fonte o la persona che la sostiene. Si sposta pertanto l’attenziona dalla tematica alla persona che ne parla e la divulga.

Le argomentazioni ad hominem sono manovre diversive che servono a distogliere l’attenzione dall’argomentazione centrale per spostarla e focalizzarla su temi collaterali o estranei alla discussione:

invece di controbattere gli argomenti dell’interlocutore lo si attacca screditandolo, minacciandolo o deridendolo.

Ultimamente si usano le solite etichette per denigrare i pensatori alternativi: si crea un frame, un fermo immagine, per inserire colui che si vuole attaccare in questa cornice, magari dicendo che è un complottista o un ciarlatano.
Si crea cioè una cornice, per esempio quella del “complottista”: tutto quello che vi viene fatto rientrare, vi appartenga o meno non importa, sarà visto dall’opinione pubblica come qualcosa da cui stare alla larga.

Così chi viene incasellato, etichettato, in questa determinata categoria verrà considerato a priori un paranoico cospirazionista e qualunque cosa dica verrà percepito e liquidato come farneticazione.
Il fatto che esistano evidenti eccessi nel campo della controinformazione non significa che tutti i ricercatori debbano essere additati e ridicolizzati come webeti e come degli squilibrati.

La propaganda vuole invece rassicurare l’opinione pubblica del fatto che non sono mai esistiti e non esistono trame occulte né complotti (facilmente smentibile a livello storico) e che chi diffida della ricostruzione ufficiale di alcuni eventi allora sarà un cretino che crede ai rettiliani o alla teoria della terra piatta, e via discorrendo.

Si tratta ovviamente di una tecnica per liquidare e denigrare chi si pone in modo alternativo rispetto alla propaganda e al pensiero unico, in modo da spingerlo a vergognarsi addirittura di aver osato pensare “male”, di essersi cioè macchiato di psicoreato.