Nella settimana della giornata mondiale della libertà di stampa, ha destato scalpore un’inchiesta pubblicata dal New York Times, da cui emerge – citando alti dirigenti americani – che gli Usa hanno fornito informazioni di intelligence che hanno aiutato gli ucraini a colpire e uccidere numerosi generali russi morti in azione nel conflitto ucraino.
Un vero e proprio scoop, che è subito diventato un caso negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha attaccato frontalmente il quotidiano definendolo “irresponsabile”, cercando di smentirne la ricostruzione, sebbene il portavoce del Pentagono John F. Kirby, intervistato sulla questione ha riconosciuto che gli Stati Uniti forniscono “all’Ucraina informazioni e intelligence che possono usare per difendersi”. Adrienne Watson, una portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, ha precisato che queste risorse non sono state consegnate a Kiev “con l’intento di uccidere i generali russi”.
Ebbene, questo scoop è stato utilizzato dai media nostrani (in testa Gramellini: “Certi lussi possono concederseli soltanto le democrazie, mentre ogni giorno ci viene ampiamente ricordato da fior di democraticissimi postfascisti e poststalinisti che gli Stati Uniti sono un regime liberticida.”) per sostenere che non vi sarebbe nessun problema di libertà di stampa o di pluralismo negli USA, sebbene la funzione primaria di cane da guardia del potere delle testate americane si è limitato negli anni. «Tacere una verità fa altrettanto male alla nostra comunità che diffondere una menzogna» scriveva Ben Bradlee del Washington Post. E l’America lo sa bene.
La difesa della libertà d’informazione, di critica e di investigazione giornalistica anche nei suoi eccessi ed errori, sono stati, fin dagli albori, più alti negli Stati Uniti di quanto l’Europa – e l’Italia in particolare – abbia mai abbia conosciuto. Non a caso l’Italia è ruzzolata al 58° posto nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa, perdendo nell’ultimo anno, ben 17 posizioni. Uno dei fattori che ha particolarmente influenzato la discesa in graduatoria dell’Italia, è l’autocensura: “I giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”, si legge nel report.
Tornando agli USA, che si piazzano al 42° posto, per i dem, la libertà di investigazione dei giornalisti è però ancora troppo serrata. E più in generale la libertà di informazione e di espressione, soprattutto se queste finiscono per non supportare acriticamente la narrazione del pensiero unico (come succede da noi). Non a caso si è cercato negli ultimi due anni di creare un’informazione certificata e di legittimare la censura delle notizie scomode. Arrivando persino a giustificare il ban da Twitter del Presidente americano.
E allora, tirando in ballo per l’ennesima volta il povero Orwell, Biden è corso ai ripari per drenare il calo di consensi della sua amministrazione, crollata ai minimi storici, per prevenire eventuali mosse di Musk volte a riportare la libertà di espressione su Twitter e per mettere un freno al dissenso.
Come? Con la costituzione del Disinformation Governance Board, struttura il cui scopo sarà quello di contrastare la disinformazione, che vede la luce in seno al Department of Homeland Security (DHS) statunitense (ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici). L’ufficio è stato istituito in fretta e furia in vista delle elezioni di MidTerm e si palesa come una specie di Miniver orwelliano.
Alla guida del Disinformation Governance Board ci sarà infatti la debunker Nina Jankowicz, che vanta una cattedra da assistente al Wilson Center con specializzazione proprio in tecniche di disinformazione e, soprattutto, un ruolo da advisor presso il ministero degli Esteri di Kiev in seno a un’iniziativa patrocinata dalla Fulbright-Clinton Public Policy Fellowship. Infine, ha supervisionato i programmi in Russia e Bielorussia presso il National Democratic Institute. Per non farsi mancare nulla, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person”. Insomma, è politicamente corretta e sostiene la causa “gender”. E possiamo dire che appare ideologicamente schierata e non lo nasconde nemmeno.
Peccato che, sul fronte della disinformazione, la Jankowicz abbia dimostrato di avere non pochi problemi a distinguere la genuinità o meno di un’informazione. Anzi, dati i precedenti, ha dimostrato di essere completamente inadeguata per questa mansione: ha bollato come fake news la storia del laptop di Hunter Biden (per lei era disinformazione del Cremlino e ovviamente c’era lo zampino di Trump) e ha invece accreditato come vero il falso dossier Steele. Un dossier che poi si è rivelato essere in larga parte infondato e falso, come lo stesso ex membro dell’agenzia di spionaggio per l’estero della Gran Bretagna ha ammesso in seguito, finanziato peraltro da Fusion Gps, dal Comitato nazionale democratico, dalla Campagna di Hillary Clinton e dal Washington Free Beacon. Inoltre, come anticipato, il suo ruolo richiederebbe un profilo super partes, non pare poter garantire.
È chiaro che alla debunker non interessa la ricerca della verità fine a se stessa, quanto semmai, in linea con l’operato del Miniver orwelliano, garantire l’infallibilità del suo datore di lavoro, in questo caso, non il Socing, ma un altro Partito, quello democratico.
Con il Disinformation Governance Board, l’America pare riscoprire la comodità della censura. Soprattutto in tempo di guerra. E la guerra contro la Russia, va vinta a tutti i costi, anche a colpi di censura. O di mistificazione. Un’arte che i debunkers e i “professionisti della disinformazione” conoscono molto bene di questi tempi…