Nella recente intervista di Gianluca Borrelli a Walter Quattrociocchi, direttore del Laboratorio di Dati e Complessità e docente di Social Network Analysis all’Università Ca’ Foscari di Venezia, uno dei massimi esperti internazionali di analisi dati e reti sociali, viene confermato indirettamente quanto da me sostenuto nel mio saggio Fake news (Arianna Editrice).
Innanzitutto Quattrociocchi conferma l’attitudine contemporanea a scegliere il contenuto più in linea con il nostro pensiero e dall’altra spiega come è cambiata l’informazione con la diffusione del web:
“Internet è nata per decentralizzare, e fa perfettamente il suo dovere. Questa facilità nella produzione e nella fruizione dei contenuti ha ovviamente cambiato anche il modello di business dell’informazione. Bisogna produrre tanti contenuti in poco tempo e renderli accattivanti. Quello che paga è il numero di click. Tante anime che competono in un mercato in cui la moneta è l’attenzione dell’utente. I nostri esperimenti dicono che tendiamo a guardare le informazioni che più aderiscono alla nostra visione del mondo e ad ignorare informazioni a contrasto. Se qualcuno ci porta informazioni contro il nostro pensiero, in base a quanto teniamo all’argomento, tendiamo a chiuderci e radicalizzarci”. (Leggi qui)
E alla domanda successiva, risponde:
“Tutti usano fake-news, o informazioni poco accurate, o strumentali, dipende dalla prospettiva che si difende. La maggior disponibilità di contenuti ha solo aumentato la nostra possibilità di scelta, per cui finiamo per fare scelte molto più selettive. Non cerchiamo l’informazione utile, ma quella che ci piace. Per capire bene le dinamiche basta pensare alle tribù che si riuniscono intorno ad un totem e lo difendono dai nemici. In questo ambiente quello che realmente si perde è la comunicazione e lo scambio di informazioni”. (Leggi qui)
Seguendo uno dei princìpi illustrati dal filosofo e linguista Noam Chomsky[1], il potere ci ha abituati a osservare il mondo e a reagire alle notizie di pancia, in maniera sempre più dogmatica, abdicando al nostro senso critico. Assimiliamo passivamente ciò che i media ci mostrano, senza avere i mezzi e la pazienza di controllare le fonti e verificare se la visione che il pensiero unico sta imponendo all’Occidente sia effettivamente adeguata a esprimere la complessità del reale, o non sia invece “di parte” e dunque falsificata.
Accogliamo, in estrema sintesi, quello che appare in linea con quanto ci è stato inculcato e che vogliamo sentire, in modo che niente e nessuno metta in discussione le nostre certezze. Ciò è rassicurante e non ci richiede un grande dispendio di energie; possiamo affidarci a ciò che radio, TV e giornali ci dicono con fede. Loro non possono mentire.
Per altri, all’opposto, tutto è un complotto e ci si deve affidare solo ad alcuni guru improvvisati sul web: anche a costoro ci si affida in modo dogmatico. Non possono mentirci quasi fossero investiti da una grazia ultraterrena.
Si passa cioè da un sistema precostituito a un altro senza soluzione di continuità. Soprattutto senza dover mai mettere in discussione noi stessi, senza meditare, senza pensare. L’importante è che qualcuno ci dica tutto quello in cui dobbiamo credere. Basta che sia verosimile, veloce e indolore. La gente ha paura di pensare con la propria testa perché il potere ci ha disabituato a ragionare in modo autonomo. Ci ha riempito con i propri dogmi e slogan che abbiamo assimilato col latte materno.
La post-verità
Come se non bastasse, il confine tra vero e falso è divenuto sempre più labile, tanto che ormai si utilizza il termine “post-verità” (dall’inglese post-truth), scelto nel 2016 come “parola dell’anno” dall’Oxford Dictionary, per indicare questo fenomeno.
Con politica della post-verità o politica post-fattuale si intende inoltre una cultura politica caratterizzata da dibattiti in gran parte plasmati sulle emozioni del pubblico e scollegati dai dettagli che dovrebbero invece essere presi in discussione, in cui cioè i fatti oggettivi sono meno influenti del ricorso alle emozioni e alle credenze personali. La verità stessa è dunque posta in secondo piano rispetto al dibattito.
Oggi si parla pertanto di post-verità facendo riferimento alle fake news. Ma quali? Le notizie inventate, fantasiose di alcuni siti e blog o quelle dei media mainstream? Le messinscene e gli pseudoeventi degli spin doctors?
Perché se da un lato il web è pieno di notizie assurde, dall’altra anche TV, radio e quotidiani, come mostro con diversi e documentati esempi in Fake news, prendono sonore cantonate facendo da cassa di risonanza della linea governativa, in questo manipolando l’opinione pubblica attraverso la paura ed emozioni che vadano a colpire l’immaginario e la “pancia” delle persone.
L’informazione è sempre più livellata su una propaganda assurda simile a quella che una volta si usava solo in tempi di guerra e che oggi invece è routine. Una propaganda che ripropone tra l’altro i soliti luoghi comuni, come la storia delle fossi comune, delle armi di distruzione di massa o del nemico di turno cannibale che mangia i bambini. La memoria collettiva è sempre più labile e ci si scorda del passato perché esso è continuamente riscritto, distorto, manipolato.
La sensazione è che la verità dei fatti sia (volutamente) sempre più labile, persino virtuale e illusoria e che quindi i cittadini sempre più confusi e spaesati debbano affidarsi a un organo governativo auto-dichiaratosi affidabile per essere informati nella maniera corretta, diffidando di qualunque informazione “alternativa” venga ad esempio dal web o da ricercatori non allineati.
La verità come un “grande racconto”
L’intento è cioè quello di screditare la verità, spiega Alain de Benoist, presentandola come un “grande racconto” al quale non si può più credere. Tutto diventa “relativo”, virtuale se non fosse che a vigilare sulla “verità” ci sono i governi con le loro leggi e i media mainstream. Si vuole che ognuno di noi diffidi sempre più delle notizie che può trovare sul web anche qualora siano documentate e vere: ci si deve affidare solo a quello che il Partito dice e ha deciso. Gli altri sono complottisti, webeti e avvelenatori di pozzi, gli analfabeti funzionali.
I ricercatori che si pongono al di fuori di questa sfera vengono bollati come inaffidabili e menzogneri, soprattutto se il loro scopo è mostrare un altro “lato” della storia o denunciare ciò che i governi vogliono invece insabbiare. Si farà credere che costoro facciano disinformazione e che facciano parte di un clima da Medio Evo 2.0. Si dirà che sono pericolosi, e verranno iscritti in liste di proscrizione, inserendo i loro nomi in appositi rapporti filo governativi.
Il mondialismo ha prodotto non solo una globalizzazione delle merci ma anche una globalizzazione del pensiero e delle coscienze, dopo aver livellato e spersonalizzato l’individuo, distruggendo tutte le identità che aveva, arrivando persino all’impensabile, cioè a cancellarne l’identità sessuale[1] per costruire una società che sia fluida e a-morfa (senza forma) in tutti i suoi aspetti.
Sulle ceneri del vetus ordo ormai in agonia, sta non solo crescendo un mondo nuovo (citando il capolavoro distopico di Aldous Huxley), ma anche un “uomo nuovo”, che si vuole cittadino di questa nuova “costruzione”. Un uomo omologato e omologabile che sia non solo mercificato ma soprattutto “merce”[2]. Un uomo che come il povero Winston Smith di 1984, è stato svuotato e riempito con la retorica e i precetti del Partito.
Il paternalismo dei media mainstream
Tornando a Quattrociocchi, è molto interessante il passaggio in cui accusa di paternalismo i giornalisti mainstream:
“I giornali non sono portatori di verità come si pensa che debbano essere. Possono riportare i fatti (cercando di farlo bene) e le opinioni (mostrando le diverse campane ove possibile e non sposando una tesi a prescindere). Il dibattito sulle fake-news è quindi mal posto. I giornalisti sono forse che quelli che hanno pagato di più il cambio di paradigma nel mondo dell’informazione. Alcuni forse hanno anche interesse a mantenere il problema declinato nella forma “dobbiamo combattere le bugie contro la verità”, il problema è che cosi facendo dicono enormi bugie anche loro e rischiano di fare danni incalcolabili.
Tutto quanto detto in precedenza si fonda su un paio di fattori:
- la convinzione diffusa che i lettori siano tutti bambini sciocchi da educare istruire e dirgli cosa fare e cosa pensare;
- la convinzione che questo compito spetti ai media, che invece hanno spesso come reale obiettivo quello di fare click e soldi, se necessario anche a dispetto della verità.
Facilmente quando il discorso si radicalizza (praticamente sempre) si tende verso il paternalismo e questa tendenza allontana ancora di più le persone. Come dicevo prima, a volte, c’è anche la tendenza ad arrogarsi il ruolo di guru ed esperto (salvo poi non capirci nulla dell’argomento riportato).
La causa è venduta come nobile: «salvare la democrazia dalla degenerazione dell’ignoranza» salvo poi utilizzare modalità e linguaggio organici alle cose che si vogliono combattere”. (Leggi qui)
Che cosa possiamo dedurre da questa analisi?
Siamo ormai nell’era della post-verità, in cui possiamo riscontrare infinite sfumature di verità e ognuno di fatto può credere alla realtà precostituita perché tanto tutto è vero e tutto è relativo. Il relativismo e il senso di precarietà che ne conseguono servono al potere perché la diffusione di notizie – anche quelle strampalate che però solleticano l’immaginario e si sedimentano nel profondo − avviano quel processo per cui ormai la verità sembra un Noumeno inconoscibile e irraggiungibile, una monade lontana: tanto vale pertanto non credere più a nulla o credere a ciò che si preferisce. Oppure affidarsi ciecamente a un principio di autorità che rappresenti la figura paterna che latita ormai nella nostra società: ecco come nasce il Miniver. Esso e i suoi ministri non mentono e non possono mentire, rappresentano l’Ortodossia e vigilano su di noi, ci tutelano dallo psicoreato e ci proteggono dall’ombra del Nemico. Abbiamo anzi bisogno di leggi nuove per orientarci nel mondo: leggi che ci dicano come vivere e morire e soprattutto come e cosa pensare. Leggi che puniscano chi traligna e un corpo di solerti psicopoliziotti che siano pronti a segnalare chiunque devii dalla retta via. Costui andrà perseguitato, punito, riabilitato. E se non è possibile la riabilitazione, “vaporizzato”.
Che ruolo può ancora avere il giornalismo?
La verità dei ministri del Miniver è assoluta sebbene ci abbiano portato a credere che tutto è virtuale e soggettivo: semplicemente un’altra forma di bipensiero. In questo scenario per alcuni distopico, per altri contingente, che ruolo può, deve avere ancora il giornalismo?
Il giornalismo continuerà a essere fondamentale per orientarci nel mare delle fonti e delle notizie che rischia quotidianamente di soverchiarci, ma dovremo essere noi ad affinare le nostre capacità di discernimento e di senso critico. Dobbiamo però essere consapevoli di essere immersi nella propaganda e che se non vogliamo ritrovarci in una società distopica come quelle immaginate da saggisti e romanzieri visionari, siamo ancora in tempo a “svegliarci” e riappropriarci del nostro futuro, sapendo che citando ancora Orwell, «vedere ciò che si trova davanti al nostro naso richiede un impegno costante».
Anche la libertà, come la verità, richiede un impegno costante.
Enrica Perucchietti
Note:
[1] Si veda: E. Perucchietti, G. Marletta, UNISEX. Cancellare l’identità sessuale: la nuova arma della manipolazione globale, Arianna Editrice, Cesena, 2015.
[2] http://www.interessenazionale.net/rubriche/dietro-le-quinte/2017/03/29/dalla-globalizzazione-delle-merci-alla-globalizzazione-delle-coscienze-impariamo-a-conoscere-i-meccanismi-della-manipolazione-di-massa.html
[3] J. Baudrillad, L’agonia del potere, Mimesis, Milano, 2008, p. 16.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 17.
[6] Ibidem.
[1] N. Chomsky, Media e potere, Bepress, Lecce, 2014.