Da settimane si parla della mania per i Nutella Biscuits, il nuovo prodotto marchiato Ferrero. Sottolineo il termine “marchio” perché è proprio attorno a questo concetto che ruota quanto sto per esporre.
Un brand celebre nel mondo lancia sul mercato un nuovo prodotto (in questo caso biscotti). I biscotti però sembrano introvabili e dilaga una specie di corsa tra gli scaffali dei supermercati.
Non è scoppiata l’apocalisse e non si sta cercando l’ultima scatoletta di tonno o l’ultima bottiglia d’acqua. No, fiumane di persone cercano come pepite d’oro dei (semplici) biscotti. Non possono aspettare chesiano disponibili, sembra che debbano averli a tutti i costi. Devono entrare in possesso dell’ultimo pordotto del loro brand preferito. Magari bruciare sul tempo un amico o un collega e poter testimoniare di averli assaggiati prima di loro.
Dato che i biscotti sembrano dei miraggi, spuntano i bagarini.
A Napoli, racconta il “Mattino”, c’è chi ha fiutato l’affare e ha rivenduto a prezzi maggiorati le confezioni disponibili: i minimarket sparsi per tutta la città vendono i Nutella Biscuits a prezzi che variano dai 6 agli 8 euro.
Altri bagarini copiano l’iniziativa, svaligiano gli scaffali di confezioni e le rivendono su Amazon con prezzi che vanno dai 10 ai 40 euro (vedi immagini). Esatto: 40 euro per una confezione di biscotti, manco fossero ripieni di caviale, ricoperti d’oro e con una spolverata di tartufo.
Questa che sembrerebbe essere una esagerazione rende però con efficacia un problema del nostro sistema che sembra in fase di peggioramento: una specie di morbo collettivo che porta all’adorazione di nuove divinità assurte nel pantheon del consumo compulsivo. Basta che sia di marca, che il marchio sia noto e ci saranno schiere di persone in grado di aspettare per ore in coda per avere un paio di scarpe, sorseggiare un caffè americano o acquistare l’ultima palette di ombretti di una nota influencer. Ricordo inoltre che questi prodotti non vendono regalati ma pagati a caro prezzo e il prezzo esorbitante fa crescere l’ansia e l’aspettativa per avere l’oggetto tanto desiderato.
Siamo talmente asserviti al consumo compulsivo che arriviamo a spendere 40 euro per un pacco di biscotti o mille euro per un paio di scarpe. Per poter sfoggiare il logo di quel brand e sentirci realizzati per una manciata minuti. Per poi tornare a vivere le nostre esistenze alle prese con i problemi di tutti i giorni: mancanza di lavoro, stress, bollette, burocrazia, ecc.
Queste forme di distrazione ci fanno evadere, ci distraggono dai veri problemi ma al contempo ci rendono sempre più schiavi, legandoci sempre di più a quel sistema malato che ci fa soffrire, che ci rende alienati e depressi e ci spinge a sua volta ad acquistare prodotti che non ci servono per sentirci come gli altri.
Quasi 20 anni fa, il saggio della scrittrice canadese Naomi Klein, No logo, sembrava aver catturato l’attenzione e sensibilizzato su un problema legato alla globalizzazione: il branding. A partire dal titolo, Klein voleva esprimere una posizione contraria alla politica delle multinazionali che sembrano aver svuotato le nostre teste riempiendocele di slogan e di “cazzate”, sfruttando tra l’altro la manodopera con condizioni di vita alienanti e ai limiti dello schiavismo.
Evidentemente la lezione dei no global non è servita e anzi, oggi siamo sempre più ingabbiati in questo sistema che ci sfrutta, ci riprogramma e ci spinge a comportaci come dei malati psichici per sentirci realizzati e godere di un attimo di gioia. Questi atti compulsivi ci regalano un momento di evasione da quella che è una vera e propria gabbia: siamo schiavi che sono stati addestrati ad amare le proprie catene e invece di ribellarci ci indebitiamo e paghiamo a rate i nostri padroni per riempirci le vite di cose inutili. Per sentirci come gli altri. Ossia come le altre pecore del gregge.