Enrica Perucchietti – Blog

Giornalista e scrittrice. Ciò che le TV e i media non ti dicono

Mitologia, letteratura e folklore ci hanno tramandato alcune figure tragiche punite in seguito a una maledizione: costoro si sono macchiati di una colpa indicibile, rendendosi colpevoli dell’unico peccato che le divinità non possono tollerare né tantomeno perdonare, l’hỳbris (dal gr. ὕβρις).

I greci parlavano di questo antico peccato di onnipotenza che, come mostro in Cyberuomo (Arianna Editrice), il mito del progresso e le ricerche nel campo del post-umano sembrano oggi aver rispolverato: l’atto di tracotanza inteso come superamento del limite consentito che conduce inevitabilmente alla disfatta e alla catastrofe.

Nella tragedia e nella letteratura greca colui che si era macchiato di hỳbris veniva punito dall’ira divina e la punizione si ripercuoteva anche sulle generazioni successive, influenzandone negativamente il futuro (ne è un interessante esempio la trasposizione cinematografica della pellicola Il sacrificio del cervo sacro[1] ispirato alla tragedia di Euripide Ifigenia in Aulide).

Nella trama della tragedia, l’hỳbris è una “colpa” dovuta a un’azione che viola leggi divine immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvagie. La catena delle maledizioni dell’atto risale alle origini remote della stirpe di chi lo commette, per riproporsi ineluttabile nel corso delle generazioni. Non c’è scampo alla maledizione né alle conseguenze del peccato commesso.

L’orgoglio che acceca queste figure deriva da un’ostinata sopravvalutazione delle proprie forze, e come tale viene punito dagli dèi direttamente o attraverso la condanna delle istituzioni terrene.

Il “titanismo” (e più in generale l’hỳbris) è una caratteristica fondamentale per inquadrare il transumanesimo. L’impressione è che oggi l’Uomo tenti volutamente di umiliare il divino e la Natura ponendosi contro di essi con un atto di orgoglio, senza però pensare alle possibili conseguenze (o forse chi sta dietro a questo progetto lo sa benissimo e corre a tutta velocità verso una tecnoutopia). È come se fossimo nelle mani di giovani Icaro attratti dall’anelito dell’infinito o sedotti dal canto delle sirene della tecnica.

Qua nasce l’ossessione dell’Uomo, di strappare alla Natura il privilegio di creare e divenire egli stesso creatore, di fabbricarsi un proprio universo, di superare i limiti imposti dalla propria specie ed essere egli stesso Dio. Dovremmo invece fermarci e riflettere su quei limiti che si stanno varcando, prendendo in esame tutte le possibili conseguenze dell’avventura pioneristica in cui il Big Tech ci sta trascinando.

Ne è consapevole Scott Hartley, imprenditore e saggista con un passato in Google, Facebook e nel tema dell’innovazione della Casa Bianca sotto l’amministrazione Obama, che ricorrendo a questa stessa immagine mitologica, accusa i colleghi della Silicon Valley di essere ossessionati dalla tecnica e li invita alla prudenza:

«Dedalo era un grande tecnologo abile nel costruire ali con la cera, ma anche saggio nello spiegarne l’uso prudente. Il figlio Icaro fu abile nel volo ma non saggio e finì male. Abilità tecnica e saggezza sono due cose diverse. In Silicon Valley prevale l’abilità tecnica: sono ossessionati dalla costruzione di ali sempre nuove e confondono questo con la conoscenza, la saggezza»[1].


[1] https://www.corriere.it/esteri/17_settembre_22/se-quelli-big-tech-diventano-cattivi-8fe3be06-9fd5-11e7-b69e-b086f39fca24.shtml

 

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